Ci penserà l’Arabia Saudita a compensare l’eventuale perdita di petrolio iraniano. A meno di un mese dal tweet in cui Donald Trump accusava l’Opec di mantenere il prezzo del barile «artificialmente troppo alto», Riad tende la mano agli Stati Uniti offrendosi di neutralizzare l’impatto delle sanzioni contro Teheran. E la sua collaborazione potrebbe arrivare proprio nella cornice dell’Opec, che a giugno si riunirà a Vienna per ridiscutere – insieme alla Russia e ad altri alleati – l’accordo sui tagli produttivi.
In una nota ufficiale, prontamente diffusa martedì sera, Riad ha affermato che «il Regno saudita lavorerà con i maggiori produttori dentro e fuori dell’Opec, oltre che con i maggiori consumatori, per mitigare l’impatto di qualsiasi carenza di offerta».
Il ministro Khalid Al Falih ha in seguito confermato, nella giornata di ieri, di voler lavorare «per assicurare la stabilità del mercato» e di essere «in stretto contatto con la presidenza Opec, la Russia e gli Usa».
Fin dal primo momento c’erano stati comunque pochi dubbi su un coordinamento con la Casa Bianca, se non altro per il tempismo del comunicato saudita, diffuso proprio mentre il segretario Usa al Tesoro, Steven Mnuchin, stava cercando a sua volta di attenuare l’allarme sulle potenziali ripercussioni delle scelte di Trump.
«Abbiamo avuto conversazioni con diverse parti, che sarebbero disposte ad aumentare l’offerta di petrolio per compensare tutto questo», aveva dichiarato Mnuchin, pur senza precisare chi avesse garantito collaborazione. «Non mi aspetto che i prezzi del petrolio salgano».
Quest’ultima previsione è stata smentita dal mercato, sia pure con qualche ora di ritardo: le quotazioni del barile, che erano scese martedì all’annuncio delle sanzioni, ieri hanno ripreso a correre all’impazzata, aggiornando il record triennale. Il Brent si è spinto sopra 77 dollari, in rialzo di oltre il 3%, e il Wti ha superato 71 dollari.
A riaccendere il rally sembra comunque aver contribuito in modo determinante l’ennesimo calo delle scorte petrolifere Usa: la tendenza, soprattutto nel caso dei distillati, sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti.
Le ricadute delle sanzioni contro Teheran sono tuttora difficilmente calcolabili, anche se il governo Usa ha messo nero su bianco, nei documenti che illustrano le misure, che intende «ripredere gli sforzi per ridurre le vendite di greggio dell’Iran». Le stime degli analisti vanno da un minimo di 200mila a un massimo di un milione di barili al giorno perduti, com’era stato nel 2012-2015.
Washington, che ha perso l’appoggio della Ue, stavolta è isolata nell’adottare misure contro la Repubblica islamica. Inoltre l’entrata in vigore delle sanzioni sarà graduale: sono previsti da 90 a 180 giorni di tempo per adeguarsi, a seconda del tipo di relazione commerciale.
Tuttavia è probabile che in Europa e in alcuni Paesi dell’Asia si scatenerà comunque una corsa a sostituire almeno in parte le forniture iraniane.
Gli Usa minacciano infatti ritorsioni anche contro gli stranieri che fanno affari con Teheran e accoglieranno richieste di esenzione solo da chi potrà dimostrare di aver operato «significative riduzioni» negli acquisti di greggio prima del 4 novembre.
C’è inoltre il timore che banche e compagnie assicurative si tirino indietro, per evitare di compromettere i rapporti con Washington, ostacolando così ogni transazione.
Il problema del petrolio riguarda molto da vicino l’Italia: l’Iran è il nostro terzo fornitore, dopo Azerbaijan e Iraq, e tuttora invia 170-180mila bg alle nostre raffinerie, volumi superiori a quelli di qualsiasi altro Paese Ue. I clienti più assidui secondo Platts sono Saras e gli impianti siciliani Isab di Lukoil.
Molti di questi barili potrebbero essere in effetti sostituiti dall’Arabia Saudita: l’Arab Light ha caratteristiche simili a quelle dei greggi leggeri iraniani, che hanno un elevato contenuto di zolfo.
Lo stesso vale per il russo Ural, motivo per cui Mosca (benché, diversamente da Riad, sia in buoni rapporti con l’Iran e pessimi con gli Usa) potrebbe essere tentata dal ridefinire gli accordi sui tagli di produzione Opec-non Opec.
La sfida sui mercati peraltro oggi è aperta anche ai barili «made in Usa», che fino al 2015 non potevano essere esportati, ma adesso viaggiano per il mondo, in quantità spesso superiori a 2 mbg.
Lo shale oil (con poco zolfo) non è in diretta concorrenza con i greggi leggeri iraniani. Ma il greggio Mars, estratto nel Golfo del Messico, può sostituire l’Iran Heavy. Inoltre Washington, come Teheran, è anche un grande fornitore di condensati.
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