È stato Donald Trump, con il celebre tweet in cui denunciava i prezzi del petrolio «artificialmente troppo alti», a determinare l’agenda del vertice Opec del 22 giugno, in cui – ormai è ufficiale – si discuterà un’attenuazione dei tagli produttivi.
L’ha ammesso candidamente il segretario generale del gruppo, Mohammed Barkindo, al Forum economico di San Petroburgo: «Per noi è motivo di orgoglio essere amici degli Stati Uniti», si è giustificato il nigeriano dal palco. Seduti accanto a lui, i ministri dell’Energia di Arabia Saudita e Russia, che proprio in questi giorni hanno avviato – non senza qualche divergenza di opinione – un confronto faccia a faccia su come gestire l’aumento dell’offerta di greggio.
Riad, spalleggiata dagli alleati del Golfo Persico, sarebbe a favore di un incremento di 300-400mila barili al giorno. Mentre Mosca vorrebbe che ci si spigesse oltre, addirittura fino a un milione di barili al giorno, in modo da compensare tutte le forniture venute a mancare per cause di forza maggiore, a cominciare da quelle venezuelane.
L’Opec e gli altri dieci Paesi che partecipano ai tagli il mese scorso hanno estratto ben 740mila bg in meno rispetto agli obiettivi che si erano dati a fine 2016, stima l’Aie.
La prospettiva che almeno una parte di questi barili ritorni presto sul mercato ha spinto in forte ribasso le quotazioni del greggio. Il Brent – che di recente si era spinto sopra 80 dollari al barile – ieri ha perso il 3%, a 76,44 $. Ancora più netta la correzione del Wti: -4% a 67,88 $.
Anche il presidente russo, Vladimir Putin, ha dato il suo appoggio a un cambio di rotta sui tagli produttivi. «Non siamo interessati a una salita senza fine dei prezzi dell’energia e del petrolio – ha detto da San Pietroburgo – Noi siamo perfettamente soddisfatti col barile a 60 dollari».
«Sta arrrivando il momento di valutare molto seriamente una via di uscita» dai tagli, aveva affermato poco prima il suo ministro, Alexander Novak, anticipando che la produzione potrebbe risalire dal terzo trimestre se il vertice Opec darà via libera.
L’entità dell’incremento sarà discussa con gli altri Paesi della coalizione, ha sottolineato il saudita Khalid Al Falih: «Che sia un milione di barili al giorno, di più oppure di meno, bisogna aspettare fino a giugno».
È passato appena un mese da quando Trump, via Twitter, si era scagliato contro l’Opec: «I prezzi del greggio sono artificialmente Molto Alti! Non va bene e non sarà accettato!», aveva tuonato il presidente americano con il solito corredo di maiuscole e punti esclamativi. Nei giorni successivi sono seguiti contatti dietro le quinte con i sauditi (e forse non solo con loro) per ottenere un aiuto a frenare i prezzi del petrolio in vista del ritorno delle sanzioni contro l’Iran.
Niente di strano, secondo il segretario Opec Barkindo, che ricorda come anche in passato l’amministrazione Usa abbia spesso chiesto la collaborazione al gruppo per raffreddare il mercato.
I rincari alla pompa stanno diventando un serio problema politico per Trump: alla vigilia del week-end del Memorial Day, che inaugura la driving season, il prezzo della benzina è arrivato in molte aree degli Usa alla soglia psicologica di 3 dollari al gallone. E l’opposizione non perde occasione per sottolineare che i rincari stanno cancellando gran parte dei benefici ottenuti dai consumatori grazie alla riforma fiscale.
Un gruppo di senatori democratici si è spinto a scrivere una lettera aperta per sfidare Trump a confrontarsi in modo diretto con l’Opec, inviando al vertice di giugno il segretario all’Energia Rick Perry.
Non accadrà. Ma non è detto che Perry – amico del saudita Al Falih dai tempi in cui entrambi frequentavano la Texas A&M University – non possa presentarsi all’Opec Seminar, convegno biennale che si terrà a Vienna nei due giorni precedenti il vertice e al quale parteciperanno molti protagonisti dello shale oil americano. Del resto le relazioni Usa-Opec sono ormai diventate piuttosto assidue.
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