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Debito pubblico, l’impatto della fine del Qe di Draghi sulle aste del…

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CRISI POLITICA E TENUTA DEI CONTI

Debito pubblico, l’impatto della fine del Qe di Draghi sulle aste del Tesoro

Sono magre consolazioni, ma sono pur sempre consolazioni. Mentre le immagini del carosello politico italiano fanno il giro di tutto il mondo, con il sali-e-scendi di vecchi e nuovi personaggi al Quirinale e mentre lo spread saltella nervosamente da una parte all'altra dell'argine dei 200 punti base e la Borsa prende il testimone di termometro del rischio Italia, il Tesoro mette pazientemente in cascina decine di miliardi di euro, oggi 5,5 con l'asta BoT.

Le aste quest’anno saranno poco sotto i 400 miliardi, più «leggere» di quelle del 2017 (poco sotto 430 miliardi) e del 2016 (poco sotto 410 miliardi). E questa è una prima consolazione, sia pur magra, perché il programma di raccolta del Tesoro italiano resta il più impegnativo di qualsiasi paese europeo e tra i più grandi al mondo: causa lo stock oltre 2.300 miliardi e il debito/Pil al 130 per cento.

Il Tesoro si è portato avanti con la raccolta per il rifinanziamento del debito in scadenza e il finanziamento del deficit, anche quest’anno come di tradizione la prima metà dell’anno sarà più pesante rispetto al secondo semestre: ad oggi il piano della raccolta è al 50% con i BoT, al 52% senza. E questo potrà alleviare il fardello della tensione che inevitabilmente graverà sullo spread subito prima e subito dopo le elezioni, se la chiamata alle urne sarà in autunno. Anche questa è una consolazione, come quella di avere un debito pubblico composto per oltre il 90% in titoli a medio-lungo termine, in gran parte a cedole fisse, e una vita media attorno ai sette anni: questo mette l’Italia al riparo dagli shock sui tassi d’interesse e repentini rialzi dei rendimenti. Persino l’intransigente e a volte volgare stampa tedesca ha ricordato in questi giorni ai suoi ansiogeni lettori, che si angosciano pure per il debito/Pil tedesco vicino al 60%, che ci vogliono 6,3 anni prima che l’aumento dello spread e rendimenti possa essere agganciato dall’intero stock dei pubblici italiani.

L’asset migliore per chi è in cerca di consolazioni è un altro: quello del costo medio alla raccolta di Via XX Settembre che si aggira ancora vicino ai minimi storici, segnando lo 0,60% al 30 aprile. E il calo della spesa per interessi, dai 77,6 miliardi del 2013 ai 65,6 miliardi del 2017. Questo non solo grazie al Qe ma anche alla crescita, ai primi frutti delle riforme strutturali, all’accorta politica fiscale, all’avanzo primario: tutti fattori che hanno portato al miglioramento della percezione dell’affidabilità creditizia dell’Italia. I mercati e le agenzie di rating, come il Mef, prudentemente iniziavano a pronosticare un debito/Pil italiano infine in calo da quel granitico 130 per cento: una scommessa incoronata dalla promozione di rating di S&P’s (considerata la più severa delle grandi agenzie di rating) lo scorso autunno da BBB- a BBB.

“Al di là dei programmi di governo di M5S e Lega, il debito pubblico italiano si appresta a perdere la protezione del Qe”

 

Consolarsi però non basta. Perché i mercati, cioè gli investitori istituzionali italiani ed esteri che prestano i risparmi dei loro clienti al Tesoro italiano, non guardano indietro ma guardano in avanti, con un’ottica di breve, medio e lungo termine a seconda che siano hedge fund, banche, compagnie di assicurazione o fondi pensione.

E quel che vedono all’orizzonte dell’andamento del debito pubblico italiano non li consola. Al di là dei programmi di governo di M5S e Lega, in bozza o definitivi, che hanno progettato una spesa pubblica allegra e un’impostazione meno rispettosa delle regole, anche quelle contrattuali con i creditori, il debito pubblico italiano si appresta a perdere la protezione del Qe: la normalizzazione della politica monetaria della Bce è dietro l’angolo e con essa la fine degli acquisti netti dei titoli di Stato (ora già ridotta a circa 3-4 miliardi di euro al mese sui bond italiani dai picchi dei 12-10 d’inizio Qe) e l’avvio del rialzo dei tassi, anche se questi dovessero rimanere comunque bassi a lungo perchè l’inflazione stenta ad arrivare vicina ma sotto il 2%.

Il Qe è destinato a finire anche perché non è un programma infinito: la chiave capitale e il tetto al 33% del possesso delle singole emissioni, regole difficilissime da cambiare, circoscrivono il bacino potenziale degli acquisti. «Siamo vicini al tetto sui titoli tedeschi e olandesi – ammoniscono da CA-CIB – e un Qe a oltranza porterebbe la Bce un giorno a comprare solo titoli di Stato italiani». Questa eventualità è impossibile, fuori discussione. Finito il Qe (a dicembre di quest’anno o al massimo nel marzo 2019 stando alle previsioni degli addetti ai lavori) e ultimato, per quanto molto gradualmente, il reinvestimento dei titoli di Stato nel portafoglio della Banca d’Italia, il Tesoro sarà in mare aperto. A proteggerlo, in ultima istanza, le OMTs, gli acquisti da parte della Bce sul mercato secondario in caso di perdita di accesso al mercato dell’Italia ma solo nel caso di richiesta di aiuto esterno da parte del governo e con l’arrivo della Troika: un whatever-it-takes sul quale i mercati potrebbero contare meno in prospettiva quando Mario Draghi lascerà la guida dalla Bce nell’ottobre 2019.

Salvo colpi di scena il prossimo mese al summit sulle riforme europee, il debito pubblico italiano difficilmente potrà contare su armi deterrenti che funzionano bene senza essere usate contro la speculazione come un Fondo monetario europeo, un rainy day fund europeo, eurobonds o safe assets, un’unione bancaria rafforzata dalla garanzia unica sui depositi e dal back-stop sul fondo di risoluzione europeo. L’Italia allora avrà ben poco di cui consolarsi, se sarà stato proprio per colpa del suo debito se il Tesoro verrà lasciato solo a vedersela con agguerriti risparmiatori in asta.

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