Quando nel 2004 Sergio Marchionne prese il timone della Fiat attorno al Lingotto aleggiava un clima da ultima spiaggia. Il gruppo perdeva più di 2 milioni di euro al giorno e la sopravvivenza era garantita solo dalla finanza concessa dalle banche: il convertendo da 3 miliardi di euro. Lo scetticismo sul nuovo ceo era palpabile, per non dire scontato. Uno sconosciuto alla guida di un’azienda che perdeva a bocca di barile. Scelto sì dalla famiglia, perché gradito a Umberto Agnelli che ne ammirava la concretezza, ma con un know how di tutt’altro calibro rispetto a un settore così complicato come quello dell’auto. In poche settimane però l’aria mutò. Nel suo completo grigio, poi abbandonato a favore dell’oggi iconico maglioncino, riuscì a costruire un feeling con il mercato che non si è più spezzato, seppure tra alti e bassi.
«Fiat ce la farà, prometto che lavorerò duro, senza polemiche o interessi politici», assicurò pochi giorni dopo essersi insediato. Da quel giorno, era il primo giugno del 2004, Marchionne ha messo la firma su 14 bilanci del gruppo automobilistico generando in tutto oltre 15 miliardi di utili, ha incassato oltre 430 milioni tra stock option varie e ha chiuso solo due esercizi in rosso, nel 2004 e nel 2009. I numeri sono rotondi ma descrivono solo in parte il Marchionne manager poiché rappresentano la sintesi fredda di un lavoro di ben più ampio respiro. Marchionne, ne è convinto chi lo segue da tempo, ha un approccio manageriale sostanzialmente deduttivo, elabora processi logici: immagina lo scenario e adegua la strategia al quadro che muta. Un’attitudine frutto, probabilmente, degli studi filosofici, la prima delle tre lauree messe a curriculum (le altre sono Economia e Giurisprudenza più un Mba).
«Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o un amministratore delegato migliore, ma mi ha aperto gli occhi. Ha aperto la mia mente ad altro». Sotto la sua guida Fiat ha cambiato almeno quattro volte pelle adattandosi al mondo che cambiava. Ha smesso di essere conglomerata, ha allargato i confini fino a diventare player chiave in Sud America, si è spostata negli Stati Uniti con Chrysler quando il manager ha capito che servivano ancora più geografie al servizio del bilancio, riuscendo anche a proteggersi dal rigore calvinista dell’Europa a trazione tedesca, e infine ha trasformato lo storico Dna: non più mass market ma maggiore impegno verso il premium. Ora ha messo la firma su quella che sarà l’ultima metamorfosi che porterà il suo timbro: l’identificazione di Fca con Jeep.
Scelte che Marchionne ha compiuto spesso in totale in solitudine. «La leadership non è anarchia. Chi comanda è solo» ha detto in un’intervista qualche tempo fa. Forse anche per questo e per la forte personalità si contano sulle dita di una mano i collaboratori che hanno resistito al fianco del manager in questi 14 anni di autocrazia. Una personalità che alle volte si è rivelata talmente ingombrante da generare per forza di cose tensioni e strappi, con divorzi eccellenti, da Luca De Meo a Luca Cordero di Montezemolo. E alleanze mai siglate, come quella con Gm, complice lo scrupolo di alcuni ceo di sedere al tavolo della trattativa con lui.
Perché, se c’è una cosa che Marchionne sa fare davvero bene è negoziare. Lo ha dimostrato poche settimane dopo essere arrivato al Lingotto dichiarando che era pronto a esercitare la put nei confronti di General Motors e chiudendo poi la partita portandosi a casa 1,55 miliardi di “indennizzo”. Un’abilità poi confermata in un altro passaggio chiave: l’acquisto di Chrysler, per certi aspetti un vero e proprio capolavoro. È stata una trattativa «dura», ha raccontato chi era presente ma Marchionne non si è mai sottratto. Prima ha convinto il governo americano, poi i sindacati, poi le banche e infine è arrivata la firma. Avvenuta alle 5 di mattina ora di Washington, le undici ora italiana.
Lui con il suo solito maglioncino girocollo. Divisa che oggi ha parzialmente abbandonato per indossare sotto la zip del pullover una cravatta, blu, forse perché la portava anche quando il 26 luglio del 2004 ha presentato il suo primo piano a Balocco ma soprattutto perché ha centrato l’obiettivo a lui più caro: lasciare una Fca con una posizione finanziaria netta positiva. «Oscar Wilde una volta disse che “una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita”. Direi che ci siamo decisamente guadagnati il diritto di essere presi sul serio» ha detto ieri il ceo. Un risultato frutto del lavoro teorizzato negli anni trascorsi al vertice del gruppo e ben riassunto in un intervento chiave presentato ad analisti e investitori il 29 aprile del 2015: “Confessions of a Capital Junkie”-“Confessioni di un drogato di capitale”. La C è maiuscola come lo era nel Capitale di Marx e il secondo termine è l’essenza spiccia del pensiero del manager: il settore auto è un comparto che drena risorse come una spugna e non può farne a meno. Voleva essere una sorta di manifesto capace di convincere gli altri costruttori che l’opzione “stand alone” brucia denari e manda in fumo valore per gli azionisti. Quel manifesto, per ora, è rimasto lettera morta ma è una delle analisi più lucide scritte da un manager di settore.
Il resto è agiografia. Dalla Detroit Free Press che nel 2012 dopo avergli consegnato il premio “auto executive dell’anno” su di lui ha titolato «Il generale senza paura», alle lodi per le sue capacità di team leader. Sulla vita privata poco o niente. Solo un vizio, il fumo. È stato un tabagista accanito fino a un anno fa, poi ha deciso di abbandonare la sigaretta. La riservatezza, abbinata a una sorta di allergia alla mondanità, ha caratterizzato questi primi 14 anni al timone, avari di qualsiasi dettaglio privato. Se non la passione per la Ferrari, «fenomenale». Al punto che ieri alle otto del mattino si è messo al volante di una Rossa e si è buttato in pista a Balocco per scacciare la tensione pre-piano. L’ultimo, ispirato in un certo senso a una frase di Ernest Hemingway: «La vera nobiltà è essere superiore a chi eravamo ieri». Vale per Fca, vale per Marchionne.
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