L’Arabia Saudita ha promesso di rimpiazzare il petrolio iraniano dopo le sanzioni Usa e la Russia non vede l’ora di estrarre di più. Ma soddisfare il fabbisogno del mercato rischia di non essere facile. E non solo per l’aggravarsi della crisi in Venezuela.
Il crollo vertiginoso delle esportazioni di greggio di Caracas è senz’altro il problema più vistoso e drammatico, ma nella coalizione Opec-non Opec, che tra due settimane valuterà una revisione degli accordi produttivi, ci sono altri due Paesi in grave difficoltà: l’Angola, tra i membri dell’Opec, e il Messico, tra gli alleati esterni.
Entrambi hanno ridotto l’output con tagli addirittura tripli rispetto a quelli assegnati, non per eccesso di zelo, ma perché non riescono a estrarre di più. Difficilmente si schiereranno quindi a favore di un aumento della produzione, andando piuttosto a ingrossare le schiere dei contrari, che sono sempre più agguerriti.
Iran e Venezuela hanno assunto posizioni molto dure nelle ultime ore, che da sole potrebbero aver già ipotecato il risultato del vertice del 22 giugno: per statuto l’Opec può prendere solo decisioni unanimi, ma a questo punto raggiungere il consenso per aprire ufficialmente i rubinetti sembra una sfida ai limiti dell’impossibile.
Teheran e Caracas premono infatti perché l’Opec condanni gli Usa, anziché assecondarli, e avrebbero chiesto (invano secondo la Reuters) di inserire in agenda a Vienna una mozione «a sostegno dei Paesi membri sotto sanzioni illegali, unilaterali ed extraterritoriali».
«Nessuno nell’Opec agirà mai contro due dei suoi membri fondatori», ha dichiarato il governatore iraniano presso il gruppo, Hossein Kazempour Ardebili, definendo «folle e incredibile» la richiesta della Casa Bianca ai sauditi di sostituire le forniture di petrolio di Iran e Venezuela. «L’Opec non accetterà mai una simile umiliazione».
È probabile che la politicizzazione del dibattito a Vienna spingerà in secondo piano i problemi produttivi di Angola e Messico. Ma per i mercati petroliferi – oggi in deficit d’offerta e non più gravati da un eccesso di scorte – si tratta di un tema sempre meno trascurabile. Dal Venezuela stiamo infatti perdendo almeno 500mila barili al giorno di greggio questo mese (in aggiunta agli altrettanti persi nell’ultimo anno) e dall’Iran rischia di mancare fino a un milione di bg.
Luanda sta cercando di arrestare il declino della sua industria petrolifera, con nuovi giacimenti sviluppati insieme a Eni, Total e Chevron e agevolazioni al settore introdotte dal nuovo presidente João Lourenço. Ma la sua produzione, in gran parte offshore e a lungo trascurata nelle manutenzioni, è ai minimi dal 2014 e secondo l’Aie rischia di scendere ancora. A marzo l’Angola ha estratto 1,5 mbg (contro un picco di 1,9 mbg nel 2008), «tagliando» 250mila bg invece degli 80mila bg promessi all’Opec.
Il Messico – patria di Cantarell, un tempo il giacimento più grande del mondo – era arrivato a produrre 3,4 mbg nel 2004, ma oggi estrae appena 1,9 mbg, con un calo di 300mila bg dal 2016 invece dei 100mila bg previsti dagli impegni con l’Opec. La riforma del 2013, che ha aperto il settore alle compagnie straniere, non ha ancora dato i risultati sperati. E ora potrebbe esserci una battuta d’arresto: il candidato favorito alle elezioni presidenziali di luglio, Andres Manuel Lopez Obrador, punta a rivedere le oltre 100 licenze esplorative assegnate e a fermare le gare.
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