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Shale oil vicino alla crescita zero, ma dall’Opec dovrebbe arrivare più petrolio

VIENNA - La produzione di petrolio negli Stati Uniti sta frenando e nell’area di Permian, che ha trainato finora la corsa dello shale oil, la crescita fra 3-4 mesi si fermerà del tutto, perché sarà raggiunto il limite di portata degli oleodotti: un problema che potrebbe spingere il prezzo del barile oltre 100 dollari se l’Opec non «farà qualcosa». L’avvertimento è di Scott Sheffield, ceo di Pioneer Natural Resources, uno dei pochi americani che non abbiano disertato l’Opec Seminar e che ieri ha tenuto banco, con affermazioni che hanno colpito la platea più dei discorsi veementi degli iraniani, che hanno lanciato accuse contro Washington e fatto mostra di resistere a una revisione dei tagli produttivi (anche se un accordo di compromesso, secondo indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore, non sembra irraggiungibile al vertice di domani).

«Guardate cosa succede in Venezuela, cosa succede in Libia – ha affermato Sheffield – Gli Usa presto non riusciranno più a compensare e se l’Opec non farà qualcosa si creerà troppa scarsità sul mercato». A Permian in particolare, dove Pioneer opera da oltre trent’anni, a settembre non ci sarà più spazio nelle pipeline, prevede il ceo. «Alcune società dovranno fermare le estrazioni, altre muoveranno altrove le trivelle». «Il petrolio rischia di andare oltre 100 dollari e magari restarci per due o tre anni – conclude Sheffield – Un prezzo troppo alto, che non va bene per nessuno, nemmeno per noi in Texas».

Le pressioni perché l’Opec reagisca alle perdite di produzione si stanno moltiplicando. Anche l’India è tornata alla carica: «Ci aspettiamo un impegno dell’Opec e dei suoi membri a intervenire per colmare le carenze e assicurare prezzi sostenibili», ha affermato il ministro Dharmendra Pradhan dal palco dell’Opec Seminar.

Per il saudita Khalid Al Falih, atterrato solo ieri a Vienna e subito sparito dalla circolazione, un aumento di produzione è cosa fatta: «Ovviamente avremo un accordo», è stato il suo commento prima di appartarsi per una lunga serie di incontri privati. In seguito ha confermato l’ottimismo, sostendo che «tutti i ministri incontrati finora concordano che è giunto il momento di cambiare rotta». Tra i colloqui c’era già stato anche quello con l’racheno Jabar Al Luaibi, che insieme all’Iran e al Venezuela aveva minacciato di far naufragare il vertice di domani.

L’iraniano Bijan Zanganeh, più ciarliero del solito, aveva esordito con durezza al suo arrivo nella capitale austriaca: «Non penso che troveremo un accordo a questo vertice», aveva affermato di primo mattino. Più tardi, dal palco dell’Opec Seminar, si era scagliato contro Trump con un discorso insolitamente in inglese (di solito Zanganeh parla in farsi e si fa tradurre da un interprete): se il petrolio è troppo caro la colpa è delle «tensioni politiche create dall’amministrazione Usa», secondo il ministro, e l’Opec non accetterà mai di «agire contro due dei suoi membri fondatori», ossia l’Iran e il Venezuela.

Nel corso della giornata tuttavia Zanganeh ha ammorbidito i toni, arrivando a dirsi «ottimista» sull’esito del vertice. Una fonte iraniana ha spiegato al Sole che Teheran sarebbe «disponibile ad appoggiare un richiamo al rispetto delle attuali quote di produzione», soluzione di compromesso che nella sostanza – ma non nella forma – corrisponderebbe a un aumento dell’output, perché l’Opec oggi sta tagliando ben 800mila barili al giorno in più rispetto agli obiettivi che si era data.

Come altre volte in passato, la scelta delle parole nel comunicato finale sarà importante: «Non bisogna dare più offerta al mercato perché te l’ha detto qualcuno, ma perché lo consigliano i fondamentali».

Il linguaggio verso sera stava già iniziando a cambiare nelle dichiarazioni dei ministri. Il più esplicito, quello dell’Oman, un alleato esterno dell’Opec: «Non aumenteremo la produzione, ma diminuiremo i tagli – ha affermato Mohammed Al Rumhy – Gli iraniani? Penso che accetteranno».

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