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Con la corsa dell’oro nero il Golfo frena sui Sukuk

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«maometto bond»

Con la corsa dell’oro nero il Golfo frena sui Sukuk

Doveva essere l’anno del boom, quello della consacrazione come una grossa gamba del mercato mondiale dei capitali, e invece il 2018 parte malissimo per i bond islamici che da futura promessa rischia di diventare un flop; e la colpa è del petrolio. Nei primi sei mesi dell’anno le emissioni di Sukuk, obbligazioni compatibili con la religione islamica, sono crollate del 15%: il volume è sceso dai 52 milioni dell’anno scorso ai 44 del 2018 (secondo una ricerca dell’agenzia di rating S&P). Ancora peggio i bond in valuta straniera, islamici sì ma destinati ai mercati internazionali, che si sono addirittura dimezzati (-45%).

Se le cose non cambieranno, a fine anno i «Maometto Bond» a livello globale si attesteranno attorno ai 70-80 miliardi, ben al di sotto dei quasi 100 miliardi dell’anno d’oro 2017 che aveva fatto gridare al miracolo e che faceva appunto prefigurare un boom mondiale della finanza islamica trascinata proprio dai bond mussulmani. Ma l’anno era già iniziato sotto una cattiva stella: nei primi tre mesi i volumi di Sukuk erano rimasti praticamente fermi, con un misero +1%, a quota 80 miliardi. La pesante battuta d’arresto è una delle conseguenze, indirette, del petrolio stabile a prezzi alti, tornato a 80 dollari dopo anni di difficoltà. Gli stati arabi, tra i maggiori produttori al mondo di petrolio, si finanziano solo in due modi: o con i barili di oro nero, storica fonte di entrata per gli stati del Golfo Persico; o con i Sukuk, equivalente dei nostri BoT e BTp. Scoperta, questa dei Sukuk, recente per gli emiri, che fino a pochi ad anni fa non avevano deficit di bilancio e non avevano debito pubblico. Ma la caduta del petrolio, che portò i bilanci statali a finire in perdita, aveva costretto anche i regnanti più ricchi del mondo a indebitarsi per finanziare budget statali a dir poco faraonici. Ma petrolio e Sukuk sono due vasi comunicanti dello stesso meccanismo idraulico: i conti pubblici.

Se sale il prezzo del petrolio, e dunque gli stati arabi incassano più soldi, non serve emettere Sukuk. Soprattutto, poi, in uno scenario di tassi d’interesse al rialzo che costringerebbe i paesi del Golfo a emettere Sukuk con rendimenti più alti per attrarre gli investitori (e questo aumenterebbe il costo del finanziamento al servizio del debito). Gli investitori stranieri, dall’altro canto, sono oggi più tiepidi a comprare debito sovrano dei paesi del Golfo: le nuove tensioni geopolitiche in Medio Oriente frenano l’appetito. Lo stop dei Sukuk dipende molto dall’Arabia Saudita, il Paese con il maggior numero di emissioni e quello che più ha animato il mercato finora: nel 2017 da sola aveva emesso titoli per 9 miliardi. I problemi del colosso Dana Gas, che ha dovuto ristrutturare 700 milioni di debito non ha aiutato il mercato dei bond islamici.

Quello che la finanza islamica perde in business e mercato, è però una buona notizia per gli emiri: meno bond lanciati sul mercato, vuol dire meno debito pubblico.

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