Una delle tante emergenze sul mercato dell’alluminio si avvia verso la soluzione. Con una svolta inattesa Norsk Hydro ha siglato una serie di accordi in Brasile, che dovrebbero convincere le autorità giudiziarie ad autorizzare il ritorno alla piena attività di Alunorte, la più grande raffineria di allumina del mondo, costretta da febbraio a dimezzare la produzione per un caso di inquinamento. La vicenda ha contribuito a infiammare i prezzi della materia prima da cui si ricava l’alluminio, spingendoli in rialzo di oltre il 60% quest’anno, a 640 dollari per tonnellata (dopo un record storico sopra 800 dollari a maggio).
La ripresa delle forniture da Alunorte rischia comunque di non essere dietro l’angolo. Inoltre è probabile che non basterà a colmare del tutto le carenze di allumina. Sull’offerta incombono infatti altre minacce, una delle quali in particolare si sta aggravando proprio in queste ore. Lo sciopero in corso da un mese negli impianti Alcoa del Western Australia – tre raffinerie di allumina, responsabili dell’8% della produzione mondiale, e due miniere di bauxite – rischia di essere prolungato, con un probabile impatto sulle forniture, che finora l’azienda (probabilmente facendo ricorso alle scorte) ha continuato a garantire, sia pure con qualche ritardo secondo il Metal Bulletin.
L’esito dell’assemblea dei lavoratori, riuniti per votare una nuova proposta di accordo, si conoscerà oggi. Ma i sindacalisti dell’Australian Workers Union (Awu) prevedono già che sarà «un no molto forte». La stessa Awu stima che la protesta abbia già compromesso «in modo significativo» la produzione. «A organico pieno – afferma il segretario nazionale Daniel Walton – le raffinerie producono 26mila tonnellate di allumina al giorno, ma ora più di metà degli addetti sono in sciopero».
Alunorte nel frattempo potrebbe impiegare mesi per riavviare il 100% della capacità. La stessa Norsk Hydro non si fa troppe illusioni: gli accordi appena raggiunti sono «un passo importante, ma non una garanzia di rimozione dei divieti», ha dichiarato alla Reuters il vicepresidente esecutivo John Thuestad, che ha guidato le trattative.
Il gruppo norvegese, in aggiunta agli investimenti per adeguare gli impianti di trattamento delle acque reflue, si è impegnato a pagare circa 40 milioni di dollari tra costi e sanzioni e a spendere altri 35 milioni per progetti a favore delle comunità locali, nello stato di Parà. Sulla base di queste intese, siglate con il governo locale e federale, il tribunale dovrebbe revocare i divieti che oggi frenano la raffineria. «Potrebbe farlo subito, ma può anche darsi che imponga delle condizioni», ipotizza Morgan Stanley, ad esempio un «progresso visibile» rispetto agli impegni presi. Anche dal punto di vista tecnico il riavvio degli impianti non può essere immediato: per tornare alla piena produzione ci vorrà un mese dal via libera del tribunale, precisa Thuestad. «L’impatto sul mercato fisico è un tema rinviato al 2019», sintetizza Daniel Hynes, analista di Anz.
Prima di allora restano molte incognite all’orizzonte: non solo la durata e le ripercussioni degli scioperi in Australia, ma anche i tagli di produzione in Cina, legati al piano antismog invernale e più in generale alla stretta sulle normative ambientali. E soprattutto c’è il caso Rusal. Sarà difficile continuare a rifornirsi dalla società russa, se gli Usa non revocheranno a breve le sanzioni.
I rincari rischiano insomma di proseguire, per l’allumina e a cascata anche per l’alluminio. Operatori sentiti dal Metal Bulletin sostengono che le quotazioni del metallo, oggi intorno a 2.100 dollari per tonnellata al Lme, non siano sostenibili alla luce dei rincari della sua materia prima: il costo dell’allumina oggi è quasi un terzo del prezzo dell’alluminio e di solito le fonderie vanno in perdita quando si supera la soglia del 19%. Se i rialzi all’Lme non saranno suffienti, allora è probabile che saliranno i premi.
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