Il petrolio, così come le altre materie prime, non poteva uscire indenne dalla tempesta che sta investendo i mercati finanziari. Per il secondo giorno consecutivo le quotazioni del barile hanno subito ribassi superiori al 2%, una sequenza che non si era più verificata da luglio: il Brent – che la settimana scorsa volava al record da 4 anni, vicino a 87 dollari – ieri ha toccato un minimo di 80,69 dollari, il Wti è sceso fino a 71,08 dollari.
L’allarme sulle forniture iraniane, che in vista delle sanzioni Usa si stanno riducendo, incombe tuttora sul mercato (anche se ci sono stime contrastanti sul calo). Ma gli ordini di vendita che hanno investito i mercati petroliferi non sembrano essere soltanto un effetto collaterale del crollo dei listini azionari e di una generalizzata fuga dal rischio. Stanno infatti entrando in gioco anche fattori di debolezza, che se non hanno ancora demolito gli scenari rialzisti, stanno comunque cominciando ad appannare l’umore degli investitori.
Per la terza settimana consecutiva c’è stato un forte aumento delle scorte petrolifere negli Usa (+6 milioni di barili per l’Eia). Ma in generale è la domanda globale che inizia a preoccupare.
Il segretario dell’Opec, Mohammed Barkindo, comincia addirittura a paventare la possibilità di un surplus di greggio nel 2019. «Le proiezioni indicano chiaramente che potrebbe esserci una risalita delle scorte», ha dichiarato il nigeriano. Poche ore prima l’Organizzazione aveva tagliato le previsioni sui consumi: una limatura (ma è già la seconda in due mesi), che porta a prevedere un incremento tuttora consistente, di 1,45 milioni di barili al giorno quest’anno e 1,36 mbg il prossimo.
Barkindo – convinto che il petrolio non manchi, ma che ci sia solo la «percezione di potenziali carenze» – garantisce che l’Opec e i suoi alleati continueranno a fare di tutto «per assicurarsi che il mercato rimanga ben rifornito».
Con la domanda in frenata e la produzione non Opec che si espande ancora aun ritmo vigoroso, l’Opec prevede però di veder crollare la richiesta per il suo greggio di ben 900mila bg nel 2019, in pratica l’equivalente dell’intera produzione di Qatar e Congo: il cosiddetto call on Opec scenderà dai 32,7 mbg di quest’anno (in linea con l’output attuale) a 31,8mbg.
In realtà è ben possibile che la domanda rallenti in modo molto più marcato di quanto oggi si immagina. Le economie emergenti stanno soffrendo sempre di più, anche a causa del caro petrolio, che pesa in modo particolare nei Paesi che hanno subito una forte svalutazione delle valute nei confronti del dollaro. Le importazioni di greggio dell’India stanno crollando: Reuters stima un calo del 13,7% a settembre, quando il Paese fino a poco tempo fa trainava la domanda globale, con tassi di crescita addirittura superiori alla Cina.
Anche i mercati emergenti stanno iniziando a fare paura. Sulla scia di Wall Street – di nuovo in moderato ribasso, dopo il tonfo di mercoledì – le Borse asiatiche ieri sono andate a picco, in una seduta particolarmente pesante per pesante per la Cina: l’indice Shanghai Composite ha perso il 5,2%, il ribasso più forte da oltre due anni, ed è sceso sotto 2.600 punti, una soglia che non aveva ceduto nemmeno nel 2015, all’epoca in cui lo sgonfiarsi della bolla del listino azionario cinese spaventava il mondo.
Trump intanto da un lato si scaglia contro la Fed e dall’altro minaccia Pechino di ulteriori dazi, rendendo ancora più buio l’orizzonte per l’economia . Il Fondo monetario internazionale ha appena tagliato le stime sulla crescita del Pil globale (dal 3,9 al 3,7% per quest’anno e il prossimo), avvertendo che «in caso di escalation delle tensioni commerciali l’economia subirebbe un duro colpo».
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