«Alla fine abbiamo chiuso al 2,5%, che non è male. Solo che prima delle vacanze si ragionava di 60-70 punti base in meno». Per Luca Rossetti l’aumento dei tassi non è più solo un’ipotesi. Ma il prestito a medio termine appena chiuso con un primario istituto non è l’unico cruccio per l’ad del gruppo calzaturiero lombardo, alle prese con nuovi rincari anche altrove. «I funzionari arrivano - racconta - e ci spiegano che il costo del funding è cresciuto, che alla luce dello spread l’aumento dei tassi è inevitabile. E presentano il conto».
La richiesta di un aumento del 2% sugli anticipi fatture e sui fidi di cassa si è poi chiusa con un compromesso (+0,70%) ma la rotta pare tracciata. Primi segnali, ancora episodi limitati, che potrebbero però essere i prodromi di un trend più ampio. Il depauperamento del patrimonio bancario provocato dalla riduzione del valore dei titoli di stato (già visibile nelle trimestrali) e l’aumento in prospettiva del costo della raccolta sembrano già riverberarsi a valle nell’economia reale con più modalità: una maggiore selettività nell’erogazione di nuovi prestiti, la richiesta di “rientro” nei confronti delle fasce più rischiose di clientela, l’aumento dei tassi.
«Da un mese vedo movimenti comuni a tutti gli istituti - spiega Pierfabio Garavaglia, titolare di una Pmi negli apparati di illuminazione - con aumenti significativi motivati dallo spread o dai rischi legati ad un possibile declassamento di Moody’s. Morale, per il fido di cassa ora devo pagare due punti in più, per l’anticipo fatture siamo passati dal 2,8 al 3,98%». «A me - aggiunge una imprenditrice delle macchine utensili che preferisce non comparire direttamente - hanno chiesto in poco tempo il rientro dei fidi di cassa per 300mila euro.
Quasi tutte le banche si sono mosse nello stesso modo, e questo in prospettiva mi preoccupa: se ora si riesce a negoziare, scaglionando nel tempo il rientro, cosa accadrebbe a gennaio alla mia azienda se i rubinetti si chiudessero del tutto?». Sarebbe in effetti un ritorno al passato, ad un film purtroppo già visto dal 2011 in poi. Oggi, dopo anni di QE e spread sotto controllo, per le nuove operazioni di prestito le imprese pagano in media l’1,55%. Ai livelli attuali, i 21,7 miliardi erogati dalle banche nel mese di agosto generano su base annua un onere di 336 milioni, un terzo rispetto a quanto sarebbe accaduto per lo stesso importo alla fine del 2011. Benefici che negli anni si sono tradotti in minori oneri finanziari, come si può comprendere guardando gli stock. I prestiti alle società non finanziarie sono ora pari a 696 miliardi di euro e il loro costo annuo, generato da un tasso medio del 2,11% sulle consistenze, è di 15 miliardi. Nell’agosto del 2011, ai tassi di allora, la stessa cifra avrebbe generato oneri per 26,2 miliardi all’anno, oltre 11 in più. Nei confronti della Germania rischia inoltre di tornare ad allargarsi anche lo spread allo sportello, i maggiori oneri sui prestiti che storicamente gli imprenditori italiani pagano rispetto ai concorrenti tedeschi.
Ad agosto 2013 il delta a nostro sfavore era pari a 144 punti base, ridotto ad appena 21 nello stesso mese dello scorso anno: ora, dopo due mesi in traiettoria divergente siamo risaliti ad un gap di 37. «Quel che è certo - spiega Luca Manzoni, responsabile corporate di Banco Bpm – è che sulle trattative avviate qualche mese fa le condizioni non potranno più essere mantenute inalterate. Se i clienti dovessero confermare la richiesta di un prestito a cinque anni, i tassi potrebbero salire di 20-30 o 40 punti base rispetto a quanto si era ipotizzato prima. Con lo scenario attuale è inevitabile». Gli ultimi dati disponibili di agosto, drammaticamente vecchi alla luce degli ultimi accadimenti, mostrano solo una lieve increspatura, dall’1,48 all’1,55% sulle nuove operazioni, mini-rialzo che però rischia di essere solo l’antipasto. Un trend da arrestare sul nascere, tuttavia, e non per accontentare Bruxelles, agenzie di rating o Bce.
Basta guardare a casa nostra, alle macerie di un passato ancora recente. E usare il buon senso.
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