L’annuncio, dieci anni fa, fu un fulmine a ciel quasi sereno per la gran parte degli svizzeri. Con un comunicato diffuso
poco prima delle sette di mattina, il 16 ottobre 2008 il Governo elvetico informava i cittadini che Ubs, la maggior banca
del Paese, era sull'orlo del collasso e che quindi lo Stato sarebbe intervenuto in suo aiuto. Ubs, praticamente un'istituzione
oltre che una banca nella Confederazione elvetica, era stata colpita duramente dall'onda lunga della crisi finanziaria legata
ai mutui subprime Usa. Le autorità e la Banca nazionale svizzera (Bns) l'avevano messa sotto osservazione nei mesi precedenti,
ma pochi pensavano che potesse davvero rischiare il fallimento.
A dieci anni di distanza il bilancio del salvataggio è positivo - la Confederazione e la Bns hanno riavuto da tempo i loro soldi e ci hanno guadagnato – ma il rischio all'epoca fece tremare le vene ai polsi anche nella quieta Svizzera. Attualmente l'aiuto all'Ubs è un caso di studio positivo e la convinzione diffusa è che se si dovesse ripresentare un caso del genere (ma ovviamente nessuno lo auspica) lo schema di salvataggio di una grande banca potrebbe essere se non identico analogo.
Nel frattempo Ubs si è profondamente ristrutturata e, guidata dal 2011 dal ceo Sergio Ermotti, top manager ticinese, ha da
tempo ritrovato la via degli utili ed ha mantenuto la leadership internazionale nella gestione di patrimoni. Inoltre le norme
elvetiche sul too big to fail (dunque anche sui mezzi propri e sui rischi delle grandi banche) sono cambiate.
In concreto, dieci anni fa Stato e Bns affrontarono le pesanti perdite della maggior banca sistemica del Paese con due mosse senza precedenti. La Confederazione rafforzò la base dei mezzi propri di Ubs con un prestito di 6 miliardi di franchi da convertire in azioni. I titoli tossici della banca d'altro canto furono presi a carico dalla Bns, per un ammontare pari a circa 39 miliardi di dollari (circa 45 miliardi di franchi al cambio dell'epoca). Questi titoli furono concentrati nello StabFund, fondo di stabilizzazione. Mentre il bilancio di Ubs rischiava di finir soffocato da titoli in perdita e non piazzabili sul mercato in quel momento, la Bns ha avuto tutto il tempo per ricollocarli.
La Confederazione ha visto il suo prestito rimborsato già nell'estate del 2009, con un guadagno di 1,2 miliardi di franchi.
L'istituto centrale elvetico, controllato dalla mano pubblica ma quotato in Borsa, dal canto suo ha rivenduto a Ubs lo StabFund
a fine 2013 per 3,76 miliardi di franchi, guadagnandoci a sua volta.
Nel 2008 l’intervento da oltre 50 miliardi di franchi di Confederazione e Bns fece storcere il naso a molti, a quanti lo considerarono un salvataggio contro le regole naturali di mercato ed a quanti lo videro come una socializzazione di perdite private. Ma a dieci anni di distanza il consenso sulla riuscita dell'operazione è abbastanza ampio. «La Svizzera è uscita da quella crisi senza danni per il contribuente», ha ricordato nei giorni scorsi Jean-Pierre Roth, all'epoca presidente della Bns. Roth ritiene che la formula non possa essere applicata automaticamente ad ogni caso del genere, ma difende il tipo di intervento. «Avevamo acquisito la convinzione che non potevamo lasciar andare Ubs senza conseguenze molto pesanti per l'economia svizzera».
Ubs ha sentito il peso non solo della necessaria riorganizzazione, ma anche degli strascichi di alcuni aspetti delle sue attività
del passato. La banca ha dovuto pagare miliardi di franchi (in gran parte negli Usa), per controversie fiscali oppure per
le vicende legate a manipolazioni di tassi di cambio e di interesse. Strascico attuale è quello che si vede in un processo
in corso in Francia. Ubs, la sua filiale francese e sei alti dirigenti o ex quadri sono accusati di aver aiutato clienti abbienti
ad evadere il fisco tra il 2004 e il 2012, per oltre 10 miliardi di euro. Nel caso fosse considerato colpevole, l'istituto,
che ha respinto le accuse, rischierebbe una multa che potrebbe arrivare sino ad un massimo di 5 miliardi di euro.
La crisi di Ubs costò il posto a Marcel Ospel, numero uno della banca in quegli anni, e ad altri top manager di rilievo. L'istituto ha tagliato la presenza nell'investment banking ed è tornata a puntare soprattutto sulla gestione di patrimoni privati (ora wealth management) e in parte di quelli istituzionali (asset management), tenendo il retail banking (sempre sul solo mercato domestico). I dipendenti di Ubs, 83 mila nel 2007, erano 61 mila a fine 2017. Ma il ricentramento del business e la dolorosa cura dimagrante per strutture e organici hanno consentito il rilancio. Ubs ha ritrovato la strada dei profitti ed è ancora leader. Anche se quella incredibile crisi di un decennio fa rimane per tutti, nella banca e nel Paese, un ricordo chiaro ed un ammonimento sui rischi da non correre.
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