Il conto alla rovescia per le sanzioni contro l’Iran sta per finire, ma il rally del petrolio ha perso fiato. Dopo i record pluriennali di inizio ottobre, i prezzi hanno cominciato a cedere, fino al tonfo di ieri che ha portato il Wti sotto la soglia psicologica di 70 dollari al barile e il Brent a quota 80 dollari.
Le liquidazioni dei fondi si stanno facendo più intense di fronte al moltiplicarsi di fattori ribassisti. L’instabilità dei mercati finanziari e il crescente timore di una frenata dell’economia globale sono solo un tassello del puzzle.
Anche il cosiddetto “premio geopolitico” si è sgonfiato ora che Donald Trump torna a tendere la mano all’Arabia Saudita: «Non voglio abbandonarla», ha dichiarato ieri il presidente Usa, rimangiandosi ogni minaccia di «punizioni» per le responsabilità nella morte di Jamal Kashoggi. Gli investitori avevano temuto ritorsioni da Riad, forse addirittura un embargo sul greggio in stile 1973 (anche se ci sono buoni motivi per ritenerlo un evento molto improbabile).
Infine ci sono i fondamentali, tutt’altro che irrilevanti sui mercati delle materie prime: a ben guardare lo scenario per il petrolio non è più così rialzista come sembrava fino a poco tempo fa.
I segnali di indebolimento della domanda sono sempre più frequenti (compresa l’ennesimo aumento delle scorte Usa, reso noto ieri), mentre sul fronte dell’offerta non sembra più impossibile compensare il calo delle forniture iraniane.
L’export di greggio dal Medio Oriente – Arabia Saudita e non solo – è ai massimi da tre mesi, stima Reuters: 133,08 milioni di barili nella settimana al 14 ottobre, in aumento di 9,94 mb da quella precedente. La Russia estrae di nuovo a ritmi da primato (senza più alcun freno ai produttori da parte del Cremlino, afferma Gazprom Neft). E l’output continua a crescere anche negli Usa, nonostante l’ingorgo degli oleodotti in uscita da Permian.
Allo stesso tempo iniziano a serpeggiare dubbi sulla reale entità del calo delle esportazioni dall’Iran: Teheran ha messo in atto diversi stratagemmi per confondere le stime e se gli europei hanno troppa paura delle sanzioni per usare meccanismi di pagamento alternativi, ci sono comunque Paesi, come Cina e India, che continuano a importare.
Gli hedge funds e altri investitori speculativi hanno tuttora quasi 10 posizioni rialziste per ogni posizione ribassista sul petrolio, ma a ottobre hanno dato una bella sforbiciata all’esposizione netta lunga (all’acquisto), portandola ai minimi da un anno nel caso del Wti, ed è probabile che le liquidazioni stiano continuando. Ieri il greggio americano ha chiuso in ribasso del 3% a 69,75 $/barile, a fronte degli 80,05 $ del Brent (-1,7%).
L’appuntamento settimanale con le statistiche Eia ha indicato un nuovo forte aumento delle scorte di greggio Usa (+6,5 mb), il quarto consecutivo. Sono diminuiti gli stock di carburanti, ma l’Eia stima che nelle ultime 4 settimane i consumi di benzina siano calati del 2,8% rispetto a un anno prima.
Quanto alla domanda di greggio, i margini di raffinazione stanno crollando sia negli Usa che in Europa. E questo di certo non promette bene.
I margini per la benzina oltre Oceano – dove molti impianti sono già chiusi per manutenzioni o per colpa degli uragani – sono scesi sotto 10 dollari al barile per la prima volta dal 2016, fa notare Bloomberg.
In Europa va ancora peggio. Reuters ha rilevato che venerdì scorso – per la prima volta da 5 anni – sono andati addirittura in negativo: in pratica le raffinerie perdono soldi se producono benzina. Le scorte di questo carburante si stanno accumulando anche nel Vecchio continente e sono al record storico per questo periodo dell’anno nell’hub Amsterdam-Rotterdam-Anversa (Ara).
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