Il risultato delle elazioni di di mid-term negli Stati Uniti ha rispettato le previsioni della vigilia: i democratici hanno riconquistato il controllo della Camera dei deputati mentre i repubblicani hanno mantenuto il controllo sul Senato. Nei due anni che mancano al termine del primo mandato di Trump l’amministrazione americana si troverà quindi a fare i conti con una minor libertà di manovra rispetto a quanto successo finora. Non è una situazione nuova per la democrazia americana - la perdita della Camera al voto di metà mandato è piuttosto frequente per il presidente eletto - ma questo risultato elettorale finirà inevitabilmente per condizionare le scelte di politica economica e quindi anche l’andamento dei mercati.
La reazione a caldo dei listini
L’esito del voto è in linea con le previsioni e questo spiega perché la reazione dei mercati sia stata relativamente contenuta.
Eppure una reazione c’è stata. In particolare sul fronte valutario e obbligazionario dove si è assistito a un calo del dollaro
(qui il grafico del cambio sull’euro) e a una riduzione generalizzata degli spread dei titoli governativi europei (qui le quotazioni dei principali titoli governativi continentali) a partire da quello italiano (qui il grafico dello spread Bund-BTp). Meno unidirezionale l’andamento dei listini: in Asia gli indici hanno registrato un andamento contrastato mentre in Europa
hanno prevalso i rialzi.
Nuovi sgravi fiscali meno probabili
Che succede all’economia e ai mercati dopo il voto? I fronti parlamentari che potrebbero condizionare i mercati sono sostanzialmente
due: fisco e infrastrutture. Sul primo l’amministrazione repubblicana ha già fatto molto varando una riforma che ha dato la spinta agli utili societari e a Wall Street. Con una Camera sotto il controllo dei democratici tuttavia è improbabile che si possano varare ulteriori provvedimenti in
questo senso. Ciò in prospettiva rischia di raffreddare la crescita dell’economia americana. In questo contesto aumenta la
probabilità di una fine del ciclo negli Usa (il Pil è in crescita da 10 anni) e quindi la probabilità che la Fed interrompa
(o quantomeno rallenti) il suo processo di normalizzazione sui tassi. In questo senso si spiegano il dollaro debole e il calo
dei rendimenti dei titoli di Stato. Due movimenti che in genere si associano alle scommesse su una politica monetaria espansiva
(o quantomeno non restrittiva). Gli acquisti sui Treasury inoltre potrebbero essere giustificati dalla prospettiva di un contenimento
del deficit e del debito (dati in crescita in caso di nuovi sgravi fiscali).
Il nodo infrastrutture
Sulle infrastrutture è ancora tutto in sospeso. Su questo fronte c’è la possibilità di una convergenza con i democratici,
che sono contrari all’agenda fiscale di Trump, ma sono favorevoli a varare un piano di investimenti. La domanda è: saranno
disponibili a scendere a compromessi a costo di offrire un assist a Trump in vista delle prossime presidenziali del 2020 oppure
sceglieranno di dare battaglia alla Casa Bianca su tutti i fronti rinunciando a un capitolo importante della loro politica
economica? Le probabilità di una fine del ciclo di crescita negli Stati Uniti (con tutto ciò che questo comporta per i mercati
finanziari) saranno, con ogni probabilità, inversamente proporzionali al livello di conflittualità tra Casa Bianca e Congresso.
L’incognita dei dazi
È opinone abbastanza comune tra gli analisti che i mercati potrebbero tuttavia reagire negativamente a uno scenario di conflitto
tra Congresso e Casa Bianca. Soprattutto perché, in assenza di un supporto parlamentare, il presidente potrebbe concentrarsi
su capitoli meno graditi del suo programma elettorale come i dazi o la politica estera dove ha costituzionalmente maggior
libertà di manovra.
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