Nei primi nove mesi del 2018 i rendimenti dei fondi pensione sono stati negativi. Le variazioni medie aggregate, al netto dei costi di gestione e della fiscalità hanno segnato un -0,1% e un -0,2%, rispettivamente, per i fondi negoziali e i fondi aperti; -0,1 per i Pip “nuovi” di ramo III. Per incontrare un performance negativa, su base annua, nelle serie storiche Covip bisogna risalire al 2008. La limatura è dello 0,2% sui rendimenti medi annui composti realizzati tra il 2007 e la fine del settembre scorso, guadagni che restano positivi (3,1% per i fondi negoziali) se confrontati con il solito benchmark del Tfr (2,1% ).
Abbiamo chiesto al presidente della Covip, Mario Padula, come dobbiamo leggere questi risultati. E la prima domanda è scontata: ha pesato lo spread BtP-Bund? «I rendimenti di investitori istituzionali, come fondi pensione, vanno valutati su un arco temporale più ampio, tipicamente pluridecennale. È indubbio, tuttavia, che l’instabilità dei mercati e l’aumento dello spread Btp-Bund abbiano pesato sui rendimenti dei primi nove mesi del 2018, in particolare su quelli del terzo trimestre. L’effetto sulle prestazioni del singolo iscritto è infine tanto maggiore quanto più vicina è la data di liquidazione delle prestazioni stesse».
Se il differenziale restasse sui livelli attuali per altri sei mesi o un anno?
È difficile dire cosa accadrà da qui alla fine dell’anno. Certamente, se lo spread continuerà a salire i rendimenti dei fondi pensione continueranno a scendere.
Come potrebbe cambiare la strategia di investimento dei fondi?
In generale, i fondi pensione tendono a comprare quando i prezzi sono bassi e vendere quando sono alti. Se lo spread continuasse a salire, non è da escludersi un aumento della quota dell’attivo investita in titoli di Stato italiani.
In questo contesto l’ipotesi di indirizzare investimenti diretti sull’economia nazionale sembra farsi più remota.
L’aumento del rendimento dei titoli di Stato può, nell’ambito degli investimenti domestici, rendere meno appetibili quelli in fondi di private equity o in fondi infrastrutturali, che sono tipicamente illiquidi e più rischiosi dei titoli di Stato.
Intanto le adesioni aumentano: +3,7% nei nove mesi, quasi 8 milioni di italiani hanno una posizione pensionistica complementare. Ma siamo in ritardo rispetto ad altri paesi dopo oltre vent’anni dall’avvio del secondo pilastro.
Molto è stato fatto dal 1993, l’anno zero della previdenza complementare nel nostro paese. Adesioni e patrimoni sono cresciuti stabilmente negli ultimi cinque lustri. Esistono tuttavia ulteriori margini di sviluppo, pur in un quadro nel quale il primo pilastro assicura la quota maggioritaria del rischio di longevità. L’esclusione previdenziale è più forte tra i giovani, le donne, le lavoratrici e i lavoratori di imprese di piccole dimensioni, tra chi vive al Sud e, in generale, tra coloro che hanno un più basso attaccamento al mercato del lavoro. A loro bisognerà pensare se si vuole aumentare l’inclusione previdenziale ed in questo modo ridurre il rischio di povertà nella fase terminale del ciclo di vita.
L’anno prossimo con «quota 100» potrebbe determinarsi un maggior flusso di pensionamenti per anzianità mai visto negli ultimi vent’anni. Potrebbe essere l’anno di svolta anche per i fondi pensione?
Nei fondi pensione, le lavoratrici e i lavoratori dipendenti tra i 60 ed i 64 anni di età sono circa 400.000. A fronte di un non piccolo bacino potenziale di uscite nei prossimi anni, va ricordato che la previdenza complementare italiana segue in gran parte il modello della capitalizzazione ed il principio dei contributi definiti. Perciò, uscite “anticipate” dal sistema, anche cospicue, non pongono un problema di stabilità per i fondi né aumentano il cosiddetto debito implicito, come avviene per i sistemi pensionistici a ripartizione. Piuttosto, ed indipendentemente dagli interventi sul primo pilastro, è importante che l’iscritto ad un fondo pensione valuti sempre con attenzione il momento dell’uscita per contenere gli effetti sulle prestazioni di fasi di mercato particolarmente negative.
In manovra non si prevede niente sulla previdenza complementare. Un'occasione mancata?
È in corso di recepimento la Direttiva europea 2016/2341, la cosiddetta IORP II, che rappresenta una grande occasione di crescita per la previdenza complementare del nostro Paese. Per cogliere appieno questa opportunità sarà importante prevedere un’integrazione delle risorse di cui l'Autorità dispone per fare fronte ai nuovi compiti assegnati dalla Direttiva, in funzione di una governance più moderna ed adeguata alle sfide di sistemi finanziari sempre più complessi ed in continua evoluzione. Per affrontare il problema dell’esclusione previdenziale, sarebbe invece utile ripensare al trattamento fiscale dei contributi, magari introducendo la possibilità che un beneficio fiscale non goduto in un dato anno possa essere riportato agli anni di imposta successivi. In questo modo, si renderebbe più conveniente l’adesione per chi ha carriere più discontinue e redditi più instabili. Un'altra misura che può essere valutata è l’allineamento del regime fiscale italiano, in cui i soli contributi sono esenti, a quello prevalente nella maggioranza dei paesi sviluppati, che esenta anche i rendimenti oltre che i contributi.
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