Un mese fa sembrava proiettato a razzo verso 100 dollari al barile, ora il petrolio sta crollando, con una velocità di caduta ancora più spettacolare (e forze eccessiva) del rally che l’aveva spinto ai massimi da quattro anni.
Anche il Brent ieri ha seguito il Wti nel territorio dell’Orso: entrambi i riferimenti del greggio sono ormai in ribasso di oltre il 20% dal picco di inizio ottobre, in quello che si chiama «bear market». Ed entrambi, durante l’ultima seduta, sono scivolati sotto importanti soglie psicologiche e tecniche, 70 dollari al barile nel caso del greggio europeo (consegna dicembre) e 60 dollari per quello americano (consegna gennaio), che ora ha completamente cancellato i guadagni di quest’anno.
Per il Wti è stata la decima seduta consecutiva in ribasso, una serie negativa che non si verificava dal 1984, quando i futures sul greggio erano appena nati al Nymex e sul mercato si stava preparando uno dei più lunghi e difficili periodi negativi nella storia dell’industria petrolifera, superato solo per asprezza da quello del 2014-2016.
Per gli amanti delle statistiche, quella che si è appena conclusa è anche la quinta settimana di ribassi per il petrolio, sequenza che a sua volta non si ripeteva dal 2014.
La novità più importante è però un dettaglio tecnico, che di certo non è sfuggito agli operatori: il greggio è di nuovo in contango, una struttura del mercato dei futures in cui i contratti a pronti valgono meno di quelli per consegna differita. In genere è un segnale di eccesso di offerta e incoraggia l’accumulo di scorte, fenomeno che peraltro è già ricominciato da qualche settimana, incoraggiando gli hedge funds a ridimensionare l’esposizione rialzista.
L’ondata di liquidazioni dei fondi si è ingrossata quando gli Stati Uniti – dopo aver minacciato per mesi di azzerare l’export di petrolio dall’Iran – hanno optato per un avvio soft delle sanzioni. È probabile che molti investitori siano stati colti di sorpresa dalle esenzioni, concesse a ben otto Paesi, tutti grandi clienti di Teheran e non sempre in buone relazioni con Washington (è il caso ad esempio di Cina e Turchia).
Inoltre, è innegabile, c’è stato un aumento troppo veloce dell’offerta. La produzione Usa è a livelli record (a 11,6 milioni di barili al giorno è salita di oltre il 20% in un anno) e anche Arabia Saudita e Russia hanno aperto i rubinetti al massimo, per far fronte a carenze che – almeno finora – non si sono verificate. I due Paesi, alla guida dell’Opec Plus, starebbero valutando un ritorno ai tagli di produzione. Ma l’esito delle trattative è molto incerto.
Non solo le compagnie russe (Rosneft in testa) sono restie a tirare di nuovo il freno, ma anche l’Iraq potrebbe mettersi di traverso. Secondo indiscrezioni raccolte dal Financial Times, Baghdad «entro un mese» potrebbe annunciare un accordo con l’Autonomia curda per riavviare le esportazioni dal giacimento conteso di Kirkuk e dalle aree circostanti, che sono ferme da oltre un anno. Si tratterebbe di altri 200-400mila bg che potrebbero presto tornare disponibili.
Il mercato petrolifero per ora non sembra influenzato da nessun rumor. La spirale ribassista ha preso ad autoalimentarsi con la successiva rottura di soglie tecniche e forse ci vorrà ancora qualche tempo perché la situazione si riassesti. La volatilità è comunque frutto soltanto della speculazione, ma anche dell’incertezza.
Gli esoneri alle sanzioni contro l’Iran sono temporanei e parziali: ci sarà una prima revisione fra tre mesi e una seconda tra sei mesi, inoltre – benché i dettagli ufficiali scarseggino – è emerso che gli Usa hanno autorizzato l’importazione di quantità molto limitate di greggio e/o condensati, imponendo rigide condizioni di acquisto. Sembra ad esempio che i pagamenti debbano finire in conti vincolati e non in mano a Teheran.
Il problema Iran, insomma, potrebbe presto riaffacciarsi sul mercato. Così come potrebbe balzare in primo piano l’allarme per nuove sanzioni Usa contro la Russia.
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