C’è troppo petrolio e troppo poca fiducia nell’Arabia Saudita, che non si ritiene capace di sfidare Donald Trump con nuovi tagli di produzione. Si spiega così l’accelerazione delle vendite, che ieri si sono ingrossate al punto da affondare del 7% le quotazioni (già deboli) del barile.
Il Brent, che a inizio ottobre volava oltre 86 dollari, ai massimi da quattro anni, è sceso addirittura sotto 66 dollari dopo l’ultimo tweet anti-Opec del presidente Usa. A 65,47 $ il greggio europeo è ai minimi da marzo. Il Wti – giunto alla dodicesima seduta consecutiva di ribasso, un record assoluto nella storia dei futures – ha invece chiuso a 55,69 $, il prezzo più basso da novembre 2017.
Il cedimento di soglie tecniche ha alimentato le liquidazioni degli hedge funds, evidentemente non ancora soddisfatti benché avessero già ridotto l’esposizione rialzista ai minimi da due anni la settimana scorsa. A innescare l’ultima vertiginosa caduta dei prezzi è stata però una scommessa sulle relazioni politiche tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Gli investitori sembrano convinti che Riad, costretta a scegliere tra la difesa del prezzo del petrolio e l’amicizia con Trump, privilegerebbe quest’ultima. Soprattutto ora che il caso Kashoggi e la guerra in Yemen stanno mettendo a prova l’alleanza tra i due Paesi.
Il presidente americano lunedì si è rivolto via Twitter non solo all’Opec, ma anche in modo esplicito all’Arabia Saudita, chiamata significativamente in causa a poche ore dalle dichiarazioni del ministro Khalid Al Falih, che annunciava una riduzione di 500mila barili al giorno dell’export di Riad fin da dicembre, oltre a ipotizzare la necessità per l’Opec Plus di ritirare un milione di bg dal mercato nel 2019.
A dare man forte a Trump ieri è intervenuta l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). Spingere in rialzo il prezzo del petrolio «non è la cosa giusta da fare» in questo momento, ha affermato il direttore esecutivo Fatih Birol. «I produttori chiave si sono comportati in modo responsabile negli ultimi mesi – ha aggiunto – Spero che questo contesto rassicurante sul mercato petrolifero rimanga ancora per qualche tempo, non è interesse di nessuno tornare alla zona rossa».
Il riferimento è all’allarme che la stessa Aie aveva lanciato a ottobre, quando il barile ai massimi da 4 anni segnalava a suo dire l’ingresso in una «zona rossa» dei prezzi, ai limiti della soglia di rischio per l’economia globale.
Il segretario generale dell’Opec, Mohammed Barkindo, lunedì aveva invece definito «allarmante» la «ripresa dell’offerta non Opec e in particolare dello shale oil negli Usa, che mette sotto pressione la fragile equazione tra domanda e offerta».
A fornire le cifre dell’equazione è stato ieri il rapporto mensile dell’Organizzazione. E il risultato, se contassero solo le leggi dell’aritmetica, non lascia dubbi sulla necessità che l’Opec torni a chiudere i rubinetti.
Il gruppo a ottobre ha estratto 32,90 mbg di greggio (+127mila bg da settembre) ma i suoi economisti prevedono che nel 2019 la richiesta sarà di 31,54 mbg, oltre 1,3 mbg in meno.
La produzione dei concorrenti, al traino degli Usa, dovrebbe infatti salire di ben 2,2 mbg secondo le nuove stime, alzate di 250mila bg rispetto a un mese fa. Per la domanda petrolifera la previsione è stata invece limata per il quinto mese consecutivo: l’incremento atteso è di 1,29 mbg.
«Ora il mercato del petrolio ha raggiunto un equilibrio», osserva il rapporto, ma per l’anno prossimo la tendenza è un «crescente eccesso di offerta sul mercato». L’esito del vertice del 6-7 dicembre a Vienna sarebbe quasi scontato, se – ancora più del solito – non ci fosse di mezzo la politica.
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