È stato un Black Friday davvero. Per il petrolio la settimana si è chiusa con un’altra seduta nera, anzi nerissima. E come nei negozi si sono visti prezzi da super-saldi: il Brent è scivolato addirittura sotto 60 dollari al barile, mentre l’americano Wti vede ormai vacillare la soglia dei 50 dollari.
Entrambi sono ai minimi da ottobre dell’anno scorso, dopo aver di nuovo subito un tonfo di circa il 7%, come era già successo martedì scorso e anche il martedì precedente. Sedute di volatilità estrema, che sembrano fatte con lo stampino e che fanno sospettare forti riposizionamenti da parte di soggetti finanziari: forse non più fondi o Cta (Commodity Trading Advisors), che hanno ormai finito di liquidare le posizioni rialziste, ma piuttosto banche, che hanno fatto da controparte alle operazioni di hedging di compagnie petrolifere e governi stranieri.
Non sono molti i Paesi produttori di petrolio che si proteggono dal rischio di ribassi attraverso contratti derivati, ma il Messico e il Brasile l’hanno certamente fatto, entrambe utilizzando opzioni put (che danno diritto a vendere al raggiungimento di un certo livello di prezzo). E in gioco non ci sono solo quattro spiccioli.
Il programma messicano, soprannominato Hacienda Hedge, di solito copre 200-300 milioni di barili di greggio l’anno. Nel 2018 il “paracadute” è costato 1,3 miliardi di dollari, aveva dichiarato il ministero delle Finanze, e in media proteggeva da una caduta dei prezzi sotto 46 dollari al barile. Più o meno ci siamo.
Le forze ribassiste sui mercati petroliferi – ormai in discesa per sette settimane consecutive – sono comunque tante. Indubbiamente il quadro dei fondamentali giustifica l’inversione di tendenza (se non la forza del crollo), dopo la corsa che aveva portato le quotazioni del barile al record da 4 anni a ottobre, oltre 86 $ nel caso del Brent.
Le prospettive di crescita dell’economia mondiale sono peggiorate, anche sull’onda delle tensioni commerciali Usa-Cina. Ma soprattutto l’allarme per le sanzioni Usa contro l’Iran è scomparso dopo la decisione a sorpresa di concedere esoneri a otto Paesi importatori, sia pure solo parziali e temporanei. Nel frattempo l’offerta è cresciuta moltissimo, soprattutto negli Usa, in Russia e in Arabia Saudita: in tutti e tre i Paesi la produzione è ai massimi da decenni.
Riad in particolare, cedendo alle pressioni di Trump, non solo ha aperto i rubinetti dalla primavera scorsa, ma a giugno era anche riuscita a convincere tutta l’Opec Plus ad avallare una riduzione dei tagli. Ora si rende conto dell’errore, ma fare marcia indietro al prossimo vertice del 6 dicembre rischia di non essere facile.
Il ministro saudita Khalid Al Falih ieri ha confermato le indiscrezioni secondo cui Riad sta producendo a livelli senza precedenti: «Eravamo intorno a 10,7 milioni di barili al giorno a ottobre e ora siamo al di sopra», ha detto Al Falih, assicurando però di essere pronto a tirare il freno. «Non inonderemo il mercato, non manderemo petrolio a clienti che non ne hanno bisogno. Abbiamo già iniziato a diminuire a dicembre e mi aspetto che continueremo nell’anno nuovo».
Nel frattempo le compagnie petrolifere cercano di tenere duro. «Tra i 50 e i 55 dollari al barile abbiano neutralità di cassa con tutti i costi inclusi», ha rassicurato Claudio Descalzi, ceo dell’Eni. Dall’Opec «vedremo se ci sarà un taglio e che tipo di taglio». Se questo non sarà sufficiente, secondo Descalzi bisognerà attendere sei mesi, ossia la scadenza degli esoneri alle sanzioni, per capire cosa succederà all’export iraniano. «In questo periodo penso che il petrolio oscillerà tra 60 e 70 dollari al barile».
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