I tagli di produzione annunciati da Opec e Russia non sono riusciti ad arrestare il crollo del petrolio. Dal vertice di Vienna, che si è svolto meno di due settimane fa, le quotazioni del barile hanno anzi perso quasi il 10%, scendendo ai minimi da oltre un anno: 56,86 dollari nel caso del Brent e 46,97 dollari nel caso del Wti.
Giunto alla terza seduta consecutiva di ribassi, il greggio soffre per gli stessi timori che turbano i listini azionari, ma anche per fattori più specifici, in primis la crescita dello shale oil, che sembra non avere limiti.
Gli Stati Uniti sono oggi il maggior produttore di greggio al mondo, con 11,7 milioni di barili al giorno la settimana scorsa, più dell’Arabia Saudita – che ha cominciato a ridurre l’output – e più della Russia, che invece continua ad estrarre a ritmi da primato: 11,42 mbg questo mese (anche se il ministro Alexandr Novak giura che i tagli saranno effettuati «nel primo trimestre 2019»).
Le tensioni commerciali che tuttora oppongono gli Usa alla Cina (e non solo) continuano a preoccupare i mercati, così come lo scontro istituzionale – che sta diventando sempre più aspro – tra Donald Trump e la Federal Reserve.
Il rallentamento dell’economia globale è evidente e tra gli investitori comincia a diffondersi il timore che persino gli Usa possano andare in recessione. Brutti segnali per l’evoluzione della domanda petrolifera, che già oggi non è abbastanza forte da riuscire ad assorbire l’offerta: a ottobre le scorte nei Paesi Ocse sono risalite sopra la media degli ultimi 5 anni (l’incremento è stato di 5,7 milioni di barili secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, a 2,872 miliardi).
Le difficoltà produttive non mancano. L’export dall’Iran è crollato (anche se non azzerato) con l’avvio delle sanzioni Usa, l’output in Venezuela è dimezzato in due anni, a 1 mbg scarso, e l’Angola nello stesso periodo ha sofferto un calo del 10%. La Libia ha appena confermato lo stato di forza maggiore per Sharara, il suo giacimento più grande, da 400mila bg, mentre fuori dall’Opec ci sono i tagli imposti dalla provincia canadese dell’Alberta. Nonostante tutto, c’è troppo petrolio. E c’è troppa sfiducia verso il rimedio promesso da sauditi e russi.
Gli hedge funds hanno continuato a ridurre l’esposizione rialzista sul greggio anche nella settimana successiva al vertice Opec Plus, portando ai minimi da due anni le posizioni nette lunghe (all’acquisto) sul Wti. Le scommesse ribassiste sul Brent aumentano senza tregua da undici settimane, un record.
Lo sviluppo dello shale oil è stato davvero eccezionale, tanto da sorprendere persino i tecnici del governo americano: un anno fa l’Eia stimava che nel 2018 la produzione di greggio Usa sarebbe cresciuta di 1 mbg nel 2018, invece l’incremento medio è stato di 1,5 mbg.
L’ossessione degli investitori per i barili «made in Usa» rischia però di essere eccessiva. I frackers estraggono greggio ultra-leggero e poco solforoso, che non può essere impiegato in qualsiasi lavorazione e dunque non si presta a sostituire tutti i barili perduti altrove, anche se pochi sembrano curarsi di questi aspetti, forse considerati troppo tecnici.
Non sembra preoccupare (per ora) nemmeno il prosciugarsi di uno dei principali canali di finanziamento del settore dello shale, tra i più indebitati in assoluto: questo mese negli Usa non c’è stata nemmeno una emissione di junk bond, le obbligazioni «spazzatura» delle società con minor merito di credito. Una paralisi del genere non si vedava da novembre 2008, all’indomani del crac di Lehman Brothers.
Se la Fed continuerà (nonostante Trump) ad alzare i tassi di interesse e se il prezzo del barile resterà basso, le difficoltà per i frackers potrebbero aggravarsi al punto da non essere più ignorate.
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