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Così la «sindrome Trichet» rischia di contagiare anche Wall…

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L'Analisi |la fine del «denaro facile»

Così la «sindrome Trichet» rischia di contagiare anche Wall Street

(Ap)
(Ap)

Qualcuno fra gli addetti ai lavori inizia già a chiamarla «sindrome Trichet»: un modo forse poco elegante per ricordare l’errore compiuto dalla Banca centrale europea (Bce) che sotto la presidenza del banchiere francese alzò i tassi d’interesse nel luglio del 2008, proprio pochi mesi prima dello scoppio della grande crisi finanziaria culminata con il crack Lehman. E forse pure la mossa «recidiva» con cui nell’Eurozona venne di nuovo aumentato il costo del denaro tre anni dopo, in piena crisi del debito e alla vigilia della bufera sullo spread italiano.

Stavolta però gli occhi non sono puntati soltanto sull’Eurotower, ma più ad ampio raggio anche su quella Federale Reserve statunitense che ha proseguito questa settimana il ciclo di «strette» monetarie e che, se le indicazioni fornite dagli stessi banchieri dovessero essere confermate, potrebbe procedere a due ulteriori ritocchi nel 2019 alle porte. Quando cioè la frenata della prima economia mondiale appare ormai alla gran parte degli analisti fuori di ogni ragionevole dubbio.

La zampata dell’Orso
Si spiega soprattutto in questo modo infatti la reazione negativa dei mercati azionari (e quella più «costruttiva» degli obbligazionari) all’esito della riunione che si è conclusa a Washington mercoledì sera e alla successiva conferenza stampa del presidente, Jerome Powell. Quell’ondata di vendite che oltre all’Europa ha colpito soprattutto Wall Street, condizionata anche dal tema della possibile paralisi dell’amministrazione federale, portando fra l’altro ieri l’indice Nasdaq ai minimi da oltre un anno e in prossimità del livello «bear»: il valore che indica una distanza del 20% dai massimi raggiunti e decreta ufficialmente l’inizio di una correzione ribassista.

Delusione Washington
Il mercato non poteva in effetti spingersi fino a pensare a un immediato stop al ciclo rialzista da parte della Federal Reserve, ma forse per il 2019 si attendeva indicazioni più soft rispetto alla riduzione da tre a due mosse restrittive che trapela dalle indicazioni fornite dai singoli banchieri nel Consiglio di due giorni fa. «La Fed si è comportata nel modo esatto in cui ci si attendeva, perché era assolutamente impossibile rinunciare a questo rialzo preannunciato più volte, anche alla luce dei commenti di Trump», spiega Eric Vanraes, Fixed Income portfolio manager di Ei Sturdza.

Cedere alle indicazioni e ai toni per certi versi sopra le righe del presidente Usa sarebbe stato infatti interpretato come una capitolazione e una prova della mancanza di indipendenza per la Banca centrale agli occhi di un mercato che adesso però, aggiunge Vanraes, «teme che ci si possa spingere troppo oltre con i rialzi dei tassi e riproporre quindi lo scenario che in Europa viene ricordato come “Jean-Claude Trichet 2008”». Certo, sono molti a ritenere che la reazione degli investitori sia «del tutto eccessiva» come ha affermato il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, ma che sui mercati si stia prendendo le misure a uno scenario in cui gli istituti centrali stanno progressivamente riducendo la liquidità è un dato di fatto. Ed è altrettanto evidente la delusione di quanti speravano che - al di là dei tassi- a Washington si pensasse di togliere il «pilota automatico» e di dare più flessibilità al processo di riduzione del bilancio in corso.

La «fuga in avanti» svedese
La Bce è ovviamente l’altra grande osservata speciale, quando si parla di politica monetaria, e anzi il comportamento della Fed potrebbe mettere ancora più in difficoltà Mario Draghi e gli altri banchieri di Francoforte, come sottolinea ancora Vanraes, che non esclude addirittura una possibile riapertura nella seconda parte del 2019 di quegli acquisti legati al quantitative easing che sotto l’aspetto pratico si sono conclusi tre giorni fa. Ma se le attese «ufficiali» sono ancora per un rialzo dei tassi dopo l’estate per l’Eurotower, a fare le prove in questa direzione è stata giovedì la Riksbank svedese, che ha provveduto alla prima stretta (da -0,5% a -0,25%) proprio da quel luglio 2011. Anche in questo caso non si tratta del proverbiale fulmine a ciel sereno, ma qualcuno è stato comunque preso in contropiede (come dimostra l’apprezzamento di oltre l’1% della corona nei confronti dell’euro) perché pensava che la decisione potesse essere rinviata a febbraio.

Senza bussola
Nella settimana clou per le Banche centrali hanno invece manifestato una maggior cautela quelle di Inghilterra e Giappone, entrambe ferme sui tassi. E se a Londra la posizione attendista è stata giustificata con i dubbi che circondano l’esito della Brexit, il governatore della Boj Haruhiko Kuroda ha preso tempo, sostenendo come sia «ancora troppo presto per discutere un’uscita dalla politica monetaria ultra-accomodante», e non ha addirittura escluso ulteriori misure di stimolo. Incertezza che regna sovrana e banchieri che sembrano aver smarrito la bussola: difficile trovare ingredienti più adatti a scatenare le vendite sui listini azionari.

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