Il petrolio ieri ha rubato la scena sui mercati finanziari, con uno spettacolare balzo di quasi il 9% a New York. In una giornata semifestiva, con volumi sottili, il Wti ha chiuso a 46,22 dollari al barile: un rimbalzo avvenuto anche sulla scia dei listini azionari, ma che sembra legato soprattutto a fattori tecnici, dopo che il greggio era finito in territorio «oversold». Analogo rialzo ha messo a segno il Brent, che era sceso brevemente sotto la soglia dei 50 dollari per la prima volta da luglio 2017, salvo poi riportarsi sopra quota 53 dollari.
Il vero protagonista in quest’ultimo scorcio del 2018 resta tuttavia l’oro, che si avvia a chiudere dicembre con la performance più brillante degli ultimi dieci anni: le quotazioni – che registrano un rialzo mensile di oltre il 4% – a New York hanno superato 1.280 dollari l’oncia, ai massimi da luglio.
Il lingotto era rimasto a lungo sotto tono nel 2018 e non è un caso che il suo risveglio sia avvenuto proprio quando le Borse hanno cominciato a tremare, negli Usa e non solo. In fondo si tratta di due facce della stessa medaglia: l’oro, il più classico dei beni rifugio, è semplicemente tornato a svolgere il suo ruolo.
Con la volatilità alle stelle e l’indice S&P 500 che prima del recupero di ieri flirtava con il «bear market» (condizione in cui erano già già finiti sia il Nasdaq che il Russell 2000) gli investitori stanno scommettendo sul metallo prezioso in modo sempre più convinto.
L’esposizione dei fondi al Comex di New York è tornata ad essere in prevalenza rialzista solo questo mese, per la prima volta dall’estate scorsa. E le posizioni nette “lunghe” (all’acquisto) nella settimana al 18 settembre sono raddoppiate, a 24.569 contratti, tra futures e opzioni.
Gli investitori sono anche tornati ad accumulare Etf sull’oro fisico: il patrimonio complessivo, in crescita da oltre dieci giorni, rispetto a un anno fa è aumentato di 1,5 milioni di once.
Ancora più dell’oro corrono i titoli delle società aurifere. Il comparto è stato a lungo bistrattato, tanto che l’estate scorsa la capitalizzazione secondo Credit Suisse era ai minimi storici, ma grazie anche alla maxi-fusione tra Barrick Gold e Randgold, ora fa davvero faville: nonostante il crollo delle Borse, le blue chips dell’oro comprese nel Nyse Arca Gold Miners Index sono in rialzo di oltre il 10% questo trimestre, anche se per l’intero 2018 la performance resta negativa (-11%).
L’oro stesso potrebbe, per la prima volta dal 2015, concludere l’anno in perdita (è ancora “sotto” del 2,6%). Ma le sue prospettive agli occhi degli analisti sono rosee: il metallo raggiungerà 1.325 dollari l’oncia alla fine del prossimo anno, secondo il consensus Bloomberg.
La Federal Reserve d’altra parte non si è ancora arresa alle pressioni di Donald Trump. Ma una rinuncia a proseguire nella stretta monetaria o il licenziamento di Jerome Powell, oggi al timone della banca centrale Usa, potrebbero allentare ulteriormente le briglie all’oro. Anche perché l’instabilità dei mercati e i crescenti timori di recessione economica sono solo i principali fattori rialzisti in gioco.
Sempre negli Stati Uniti c’è anche il nervosismo per lo shutdown, la parziale chiusura degli uffici federali, che è ormai arrivata al quinto giorno e minaccia di protrarsi fino al nuovo anno. E in Europa c’è l’inquietudine per la Brexit, che sta crescendo.
Sullo sfondo un sostegno agli acquisti di oro arriva dai numerosi focolai di tensione geopolitica: dalla guerra dei dazi – ancora lontana dallo spegnersi, nonostante la tregua Usa-Cina – ai conflitti veri e propri, combattuti con le armi, che peraltro vedono un crescente disimpegno da parte di Washington. Il ritiro degli Usa da Siria e Afghanistan in particolare rischia di creare ulteriore destabilizzazione.
A fare da traino al lingotto per ora non c’è la domanda asiatica: i consumi oggi sono piuttosto deboli sia in India che in Cina, due Paesi che insieme assorbono oltre la metà dell’offerta mondiale.
In compenso ci sono gli acquisti delle banche centrali, in aumento di oltre il 20% dall’anno scorso e ai massimi da almeno sei anni.
L’accumulo di riserve auree, soprattutto da parte di alcuni Paesi, sembra peraltro il sintomo – ancora debole ma significativo – di un processo di allontamento dal dollaro: la punta di un iceberg, di dimensioni ancora piccole, ma che potrebbe crescere col tempo, favorendo ulteriormente l’oro.
Il caso più evidente è quello della Russia, che sta accelerando l’accumulo di lingotti nelle riserve della Banca centrale, mentre in parallelo ha avviato un piano per la progressiva de-dollarizzazione dell’economia. Mosca, su cui incombe il rischio di ulteriori sanzioni Usa, tra marzo e settembre ha ridotto il possesso di titoli di stato Usa da 96,1 a 14,4 miliardi di dollari.
Le riserve auree della banca centrale russa, sempre a settembre, hanno invece superato duemila tonnellate per la prima volta nella storia, in crescita del 68,5% rispetto a fine 2017.
Vtb Capital, uno dei maggiori trader di oro in Russia, parte del gruppo bancario Vtb, ha dichiarato alla Reuters che Mosca ha ridotto l’export di metallo estratto nelle sue miniere pur di soddisfare la domanda della banca centrale.
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