Anche l’oro non sembra più essere in sintonia con la Federal Reserve. Il lingotto – che di solito perde attrattiva quando i tassi di interesse salgono – si è invece rafforzato, sia nei giorni precedenti che dopo la stretta monetaria operata dalla banca centrale americana, salendo ai massimi da sei mesi, a 1.266,40 dollari l’oncia.
Ieri le quotazioni si sono mantenute intorno a 1.260 dollari, consolidandosi al di sopra della media mobile degli ultimi 200 giorni: un segnale che potrebbe essere foriero di ulteriori rialzi, soprattutto adesso che gli hedge funds al Comex sono tornati – per la prima volta da luglio – a un’esposizione netta lunga (all’acquisto) sul metallo.
I ripetuti attacchi di Donald Trump alla Fed non sono più isolati. Alle critiche veementi del presidente Usa si è aggiunto di recente l’allarme di molti analisti sul rischio che continuare a restringere la liquidità finisca col danneggiare un’economia che, se ancora cresce bene, mostra comunque sintomi di rallentamento e rimane tuttora esposta a un’escalation delle tensioni commerciali con la Cina.
Jerome Powell, il presidente della Fed, è stato un po’ più cauto che in passato, ma non abbastanza agli occhi di molti investitori, che tuttora si aspettano almeno un paio di rialzi dei tassi nel 2019. E i mercati finanziari rispecchiano proprio questi timori.
L’oro è tornato a comportarsi come bene rifugio, guadagnando quasi il 6% questo trimestre, mentre quasi ogni altro asset finanziario arretrava. I listini azionari sono nell’occhio del ciclone, il petrolio Brent è giù del 36% e persino il dollaro – nonostante la Fed – comincia a cedere: la settimana si è chiusa in ribasso di oltre l’1% per il biglietto verde in rapporto a un paniere di valute. Anche il rendimento del decennale Usa sta calando: ieri era al 2,80%, ben lontano dal record pluriennale di novembre, al 3,2%.
A scatenare la corsa all’oro probabilmente sono stati però soprattutto i rovesci in Borsa. Wall Street non solo ha saltato l’appuntamento con il tradizionale rally di fine anno, ma sta vivendo il peggior dicembre dal 1931, con un ribasso finora dell’11% per l’indice S&P 500.
L’anno si avvia invece a chiudere con un ribasso dell’8,5%, il peggiore dal 2008 (e il Nasdaq giovedì è addirittura finito in «bear market»).
Il Vix intanto – termometro della volatilità, noto anche come «indice della paura» – si mantiene vicino a 30 punti, rispecchiando anche l’ansia per un possibile shutdown negli Usa: Trump ieri minacciava una serrata «molto prolungata» degli uffici federali se il Senato non avesse stanziato i fondi per il muro al confine col Messico.
Come se tutto ciò non bastasse, a sostenere l’oro ci sono anche le tensioni geopolitiche.
Gli Usa hanno avviato il ritiro da Siria e Afghanistan, rischiando di destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente, e il presidente russo Vladimir Putin – dopo che Trump ha annunciato il ritiro dal trattato di non proliferazione – ha evocato il rischio di una guerra nucleare.
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