Nel caldo dei 30 gradi, ma non afoso, del deserto saudita di Gedda, la Juventus ha alzato la sua ottava Supercoppa Italiana, il primo trofeo del super-celebrità del calcio Cristiano Ronaldo; ma soprattutto il primo trofeo vinto da «Blue Chip» di PIazza Affari, il tempio della finanza in Italia. La «Vecchia Signora» è il club di calcio più ricco d’Italia: a fine 2018 ha superato di slancio il traguardo del miliardo di capitalizzazione in Borsa (ora vale circa 1,2 miliardi dopo aver toccato un massimo di 1,3 miliardi), cosa che le ha aperto le porte dell’empireo del Ftse-Mib, quello che un tempo era il Mib30.
Effetto Ronaldo sulle azioni Juve: in 3 giorni valore su di 70 milioni
Eppure, nonostante le decine dei miliardi che girano attorno al calcio, nel 2020 che sponsorizzazioni, senza contare diritti tv, incassi delle partite e merchandising, toccheranno la stratosferica cifra di 70 miliardi di dollari a livello globale; nonostante il media hype, il calcio ha sempre un rapporto problematico con la Borsa. In Inghilterra i club quotati sono praticamente scomparsi. E in Italia il club di Andrea Agnelli soffre il paradosso del disinteresse delle case d’affari.
Niente (più) calcio in Borsa, siamo inglesi
L’Inghilterra è la patria dell’industria del calcio, dove i club sono aziende vere e proprie, saldamente unite alla finanza:
il modello a cui tutti guardano. Già dai primi anni Novanta è partito il modello del calcio sulle pay-tv (che a sua volta
ha alimentato l’economia della ristorazione e dei locali). Le statistiche contano 10 milioni di sudditi di sua maestà abbonati
alle tv a pagamento. Un boom che a cavallo degli anni Duemila ha spalancato ai club le porte della Borsa: sul London Stock Exchange (incluso il mercato non regolamentato Aim) si contavano a un certo punto ben 20 squadre quotate:
un record mondiale (molti erano anche club che militavano in Football League, la Serie B inglese) e un modello da imitare. La finanza che incontra
il calcio. I club, perennemente in debito di ossigeno, andavano a frotte in Borsa per allargare la base di soci, a imitazione
dell’azionariato diffuso del Barcellona, e raccoglievano capitali per comprare campioni e vincere. Sembrava il connubio perfetto,
ma si è invece rivelata una fugace fiammata: nel giro di pochi anni, la maggior parte delle matricole calcistiche è scappata dalla Borsa (in gergo delisting), ritornando
in mano di mecenati privati. Oggi rimangono quotati sul London Stock Exchange una manciata di club, capitanati dal Manchester United.
Pallone & Azioni: i motivi di un binomio difficile
Ai mercati finanziari piaccion0 stabilità e certezze: agli antipodi del calcio, scienza inesatta e imprevedibile per eccellenza. I club quotati si rirovano il peggior assetto azionario possibile: la maggior parte dei soci sono i tifosi, la categoria
di investitori meno affidabile. Emotivi e suscettibili, i fan comprano e vendono sulla scia delle vittorie o sconfitte di
ogni singola partita. Conseguenza: la volatilità dei titoli è altissima.
E tutto il business del calcio, che pure è un mercato fatto da miliardi di clienti che sarebbe perfetto per l’economia globale, sembra fatto apposta per essere l’antitesi del mercato: aleatorierià dei risultati, eccessiva dipendenza dal fattore umano (per vincere occorrono campioni, difficile trovarne e non sempre bastano) che ha
costi salatissimi: i compensi dei calciatori si mangiano in media più della metà dei ricavi di un club, ricavi che ormai perlopiù vengono dai diritti sportivi. E paradossalmente, il successo in campo fa aumentare l’aggravio
economico, perché alla lista di costi si aggiungono anche i premi.
Italia- Inghilterra, due mondi divergenti?
Mentre da Paternoster Square, la modernissima piazza proprio sotto la cupola della basilica di St. Paul, sede della Borsa, il calcio scappa a gambe levate,
a Palazzo Mezzanotte, il palazzo di epoca fascista che ospita la Borsa Italiana (peraltro di proprietà del Lse), il calcio
viene incoronato nuovo sovrano dei mercati: a fine 2018 la Juventus è entrata tra le «Blue Chip» di Piazza Affari . Un traguardo
che arriva dopo anni di crescita: negli ultimi anni la Juve ha colmato il divario economico che la separava dai grandi club europei: è ormai un club da mezzo miliardo di giro d’affari (erano 200 milioni quando Agnelli prese in mano le redini del club) ed è tornata a essere competitiva sportivamente anche a livello europeo.
Juventus, accordo con Adidas: 408 mln nelle casse bianconere
Il 2018 èstato un anno storico e memorabile per il club della famiglia Agnelli: l’arrivo di Cristiano Ronaldo a Torino, il calciatore più famoso, più vincente (e più pagato) al mondo, e il record di Borsa. Eppure, nonostante i 144 milioni di «seguaci» di CR7, ormai la bandiera del club, su Instagram (è la personalità più seguita al mondo); nonostante i 7 scudetti (e forse un ottavo in tasca) di fila, e due finali di Champions League in tre anni, il club sui mercati finanziari è praticamente snobbato. Come ha svelato l’agenzia Boloomberg, il titolo Juventus è coperto da un solo broker (Banca Imi, gruppo IntesaSanPaolo), dove lavora Alberto Francese, l’unico analista che scriva report sulla società . Non solo. La Juventus in questo risulta la peggiore di Piazza Affari: nessun’altra società quotata è limitata a un solo analista (la penultima, Recordati, di analisti ne conta comunque otto). La media di Piazza Affari, sempre secondo Bloomberg, è di 19 case d’affari per ogni titolo.
Il divario tra la notorietà dello sport e dei media e l’attenzione del mercato è abissale, ma non è una problema solo alla Continassa: pure il Manchester United, una tra le squadre di calcio più blasonate al mondo che peraltro con la Juve condivide un medesimo azionista in Borsa (il fondo Lindsell), conta appena due analisti, nonostante una capitalizzazione di 3 miliardi di dollari.
© Riproduzione riservata