“Hic et nunc”, “qui e adesso”. È un approccio, spesso usato nell’analisi finanziaria, che non permette di cogliere i trend di fondo dei listini. Indossare gli occhiali di lungo periodo, invece, consente di capire meglio cosa accade sui mercati. Così è anche nel mondo dei titoli di Stato. Qui analizzando la dinamica, ad esempio del decennale statunitense, ci si accorge che dagli anni ’80 è partito un mega trend di compressione dei tassi. «Un andamento che - spiega Silvio Bona, analista indipendente - ormai si è fermato. Tanto che, da diversi esercizi, assistiamo all’andamento laterale dei rendimenti del T-Bond stesso». Questi, a ben vedere, «si muovono in un fascia laterale compresa, in alto, dall’area di resistenza di lungo periodo intorno al 3,4% e, in basso, dal supporto, sempre di lungo periodo, dell’1,45%».
Si tratta di uno scenario che, con le debite differenze, è riscontrabile nella maggior parte dei titoli di Stato dei Paesi Occidentali. Il Bund tedesco a 10 anni, alla fine degli anni ’80, aveva uno yield di oltre il 9%. Il rendimento, di esercizio in esercizio, è sceso per arrivare, nel 2016, addirittura in territorio negativo. Da un po’ di tempo, analogamente
al T-Bond, il tasso si muove all’interno di una banda laterale. Un canale orizzontale che in alto, quale resistenza di lungo
periodo (cioè livello di prezzo in cui storicamente la pressione delle vendite è maggiore di quella degli acquisti), ha l’area
intorno allo 0,8%; in basso, invece, il supporto di medio periodo (livello dei prezzi in cui storicamente la pressione degli
acquisti è maggiore di quella delle vendite) è il livello intorno allo 0,23%. Il discorso, per l’appunto, può ripetersi con
l’OaT francese o il nostro BTp. Seppure, in quest’ultimo caso, le turbolenze legate al rischio Italia hanno modificato non poco l’andamento dello yield.
La compressione storica dei tassi
Insomma: c’è stata la riduzione storica dei rendimenti. Il calo, a ben vedere, è stato dovuto a molteplici cause. In particolare
ha inciso la discesa dell’inflazione. Il tasso dei titoli governativi, infatti, è conseguenza anche e soprattutto delle aspettative
sull’indice dei prezzi. Ciò detto quali i principali fattori di questa contrazione? Le motivazioni, rispetto alle quali non
manca il dibattito tra gli esperti, sono diverse.
Tra queste possono dapprima ricordarsile politiche monetarie delle banche centrali che, anche a fronte dell’aumentare del debito globale, hanno fatto del contenimento
delle dinamiche inflazionistiche un loro mantra. Poi non deve dimenticarsi la profonda trasformazione dei processi industriali.
Un contesto in cui, grazie alla stessa automazione dei sistemi di produzione, la produttività è aumentata molto di più rispetto
ai salari. «Il che - spiega Angelo Drusiani, esperto di Banca Albertini - ha contribuito a ridurre il rischio inflattivo derivante
dal costo del lavoro». Quel costo del lavoro che, in scia alla globalizzazione dell’economia, è stato mantenuto basso anche
grazie a varie forme di delocalizzazione.
La digitalizzazione dell’economia
Più recentemente ha inoltre recitato il suo ruolo la digitalizzazione dell’economia. La disintermediazione nella compravendita
di beni e servizi, ad esempio attraverso l’e-commerce, ha ulteriormente contribuito a raffreddare il costo della vita. Va
ricordato, peraltro, la sempre maggiore precarizzazione del posto del lavoro. Una frammentazione, cresciuta di pari passo
con la riduzione dei diritti dei “workers”, che di fatto ha ridotto la voce contabile degli oneri su questo fronte (oltre
a “fiaccare” i rischi di inflazione dal lato della domanda).
Infine, ma non meno rilevante, c’è l’invecchiamento della popolazione. «Si tratta - spiega Antonio Cesarano, chief global
strategist di Intermonte Sim - di una variabile strutturale». In Occidente «la durata media della vita si è innalzata. Una
situazione che, a fronte della comprovata minore propensione al consumo delle persone di maggiore età, nuovamente tende a
ridurre le dinamiche inflazionistiche».
L’inflazione
Insomma: l’inflazione. Questa, come tutti sanno, è in linea di massima un indicatore della crescita economica. Certo: quando
va fuori controllo segnala importanti problematiche per la congiuntura. E, tuttavia, la sua presenza in percentuali contenute
è ben vista dagli esperti. L’indizio che l’economia si sta muovendo. Orbene cosa ci dicono i tassi governativi rispetto ad
essa? «Se si analizza l’andamento di lungo periodo - risponde Drusiani - salta fuori che, in generale, i rendimenti da alcuni
anni si muovono un po’ all’insu e un po’ all’ingiù». Un movimento laterale, per l’appunto, delimitato da valori che «rispetto
a quelli del passato sono molto più bassi. Il segnale che, strutturalmente, le economie Occidentali stanno perdendo potenza».
Certo: le variabili in gioco sono diverse. La situazione potrebbe cambiare anche repentinamente. Magari in seguito ad un Cigno
Nero. «Il quale, però - conclude Drusiani -, è molto difficile si materializzi con sembianze dell’inflazione». Sia per i motivi
strutturali, ancora presenti, che hanno alimentato il calo di lungo periodo dei tassi. Sia «perché - aggiunge Bona - la stessa
analisi tecnica di breve indica come improbabile il rialzo del costo della vita».
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