Il collocamento da 10 miliardi di euro del nuovo BTp è stato un successo visto il buon riscontro in termini di domanda, in particolare da parte degli investitori esteri. Non tutti però sono convinti che, alle attuali quotazioni, i BTp siano un buon affare. Ad esempio uno dei più grossi fondi obbligazionari al mondo: Pimco.
«Allo stato attuale non crediamo che il rischio sia adeguatamente remunerato» spiega Nicola Mai, responsabile della ricerca sul credito sovrano in Europa del fondo americano la cui prudenza è motivata da una serie di fattori. Uno di questi è il contesto macroeconomico: «Le nostre previsioni - spiega l’analista - danno una crescita economica più bassa rispetto al consensus di mercato: per quest’anno abbiamo messo in conto un Pil invariato se non addirittura negativo. A fronte di questi numeri crediamo che deficit e debito siano destinati a salire ancora. La manovra non ci convince. Soprattutto per l’abbondante ricorso alle clausole di salvaguardia e crediamo che un nuovo confronto con la Commissione sia inevitabile. In questo contesto l’incertezza sul voto alle prossime elezioni europee potrebbe favorire la ripresa della volatilità sui titoli italiani».
C’è poi un fattore tecnico da non sottovalutare. Quest’anno il Tesoro dovrà rifinanziare circa 260 miliardi di nuovi titoli (BoT esclusi) a fronte scadenze per 200 miliardi di euro e il grosso delle emissioni, come sempre accade, avverrà nei primi mesi dell’anno. «L’anno scorso - commenta l’analista - l’impatto del rialzo dello spread sulle aste dei titoli di Stato era stato parzialmente mitigato dal fatto che il grosso delle emissioni era già andato in porto. Quest’anno non sarà così».
Insomma non è ancora tempo di tornare a scommettere sull’Italia anche se il contesto generale di mercato dovrebbe nel complesso favorire il segmento del reddito fisso nell’Eurozona perché, alla luce del rallentamento recentemente registrato dall’economia continentale, è assai difficile che la Bce possa alzare i tassi di interesse. L’Eurotower secondo l’analista dovrebbe continuare a mantenere una politica monetaria molto espansiva e nel resto del mondo la prospettiva di una stretta sui tassi si è ridimensionata.
A partire dagli Stati Uniti dove, al netto di un altro rialzo dei tassi quest’anno, la stretta potrebbe essersi esaurita. La prudenza espressa da Powell nel suo discorso di inizio anno, da questo punto di vista, non sorprende. «L’economia americana - spiega Mai - è destinata a mostrare anch’essa segnali di frenata. Per tre ragioni: la prima è che nel 2019 si esaurirà la spinta degli sgravi fiscali di Trump; la seconda è che l’accesso al credito si è fatto più difficile con il rialzo dei tassi; la terza è che l’impatto positivo derivante dal calo del petrolio è sostanzialmente nullo in un Paese come gli Stati Uniti che in questi anni è diventato uno dei maggiori produttori al mondo».
E l’inflazione? Il 2019 non doveva essere l’anno del suo grande ritorno? Secondo l’analista dietro l’aumento dei prezzi registrato negli ultimi mesi c’è prevalentemente il contributo della componente energia. L’inflazione “core”, quella calcolara al netto delle componenti più volatili come cibo e carburanti, è rimasta bassa e continuerà a rimanere tale. «Da una parte la tecnologia ha ridotto il potere contrattuale dei lavoratori - spiega Mai - dall’altra la maggiore produttività permetterà alle aziende di assorbire l’eventuale impatto di una maggiore pressione salariale». Una lettura questa che combacia con quella fatta di recente da Bank of America Merrill Lynch che, a commento dell’ultimo sondaggio tra gli addetti ai lavori da cui è emerso un calo delle aspettative di inflazione, ha parlato di un ritorno della cosiddetta «stagnazione secolare».
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