La Brexit potrebbe spingere il gruppo London Stock Exchange a sganciare Borsa italiana con tutti i suoi satelliti? Le indiscrezioni che rimbalzano da ambienti romani non vengono commentate da Londra che però ieri nell’illustrare i risultati del 2018 (chiuso con 1,9 miliardi di sterline di ricavi e un risultato operativo di 751 milioni) ha sottolineato di essere ben posizionata in caso di fuoriuscita del Regno unito dalla Ue, grazie proprio alla diversificazione delle sue attività che - con la presenza in Europa, Usa e Asia - mettono in grado il gruppo di dipendere per meno del 50% dei suoi ricavi dalla sterlina. Chi ha avuto modo di approfondire recentemente il tema con la Borsa della City ne ha ricavato la netta impressione che l’idea di privarsi di un avamposto importante nell’area euro non sia mai stata nemmeno sfiorata, tanto più che - calcola R&S-Mediobanca - nei primi undici anni dall’acquisizione Borsa italiana ha contribuito addirittura per il 56% agli utili dell’Lseg. Tuttavia, nel mondo delle Borse, risultano spettatori interessati Euronext, la federazione di listini europei centrata su Parigi, e Francoforte.
Un recente Quaderno giuridico della Consob giudica comunque che non ci siano gli estremi per “forzare” il distacco di Borsa italiana, nemmeno con l’utilizzo del golden power, solo per l’evento Brexit. Se un domani fosse rispolverato il “vecchio” progetto di una Borsa dell'eurozona, forse l'interesse “nazionale” potrebbe essere fatto valere per non lasciare isolata Piazza Affari. Ma per come stanno oggi le cose, gli autori dello studio ritengono che di per sè la Brexit «non sia suscettibile di determinare effetti pregiudizievoli» sull'operatività delle società-mercato e delle strutture di post-trading. Già oggi infatti - è la considerazione - «il quadro normativo e di vigilanza consente/richiede alle autorità competenti di sorvegliare e, ove necessario, intervenire laddove le società che gestiscono le infrastrutture di mercato risentano di cambiamenti significativi» riguardanti sia l'azionariato che i cambiamenti manageriali/organizzativi.
Tuttavia, qualche preoccupazione in più riguarda l’Mts, che proprio da ieri è tornato “italiano”, con il trasferimento del mercato dalla capogruppo Uk a Borsa Spa. Una mossa sollecitata proprio dalla prudenza verso l’incognita Brexit. Il mercato all’ingrosso dei titoli di Stato - con i suoi addentellati internazionali - ha ricavi e utili sostanzialmente stabili rispettivamente intorno a 80 e 25 milioni. Ma più che per le dimensioni economiche, è intuitivo che la valenza strategica per un Paese indebitato come l’Italia è ben altra. Mts è vigilato da Consob e Bankitalia, ma regolamentato dal Tesoro. Gli intermediari specialisti sono quasi tutti grandi operatori bancari internazionali che, se il Regno Unito si scollegasse dal Continente, non sarebbero più in grado di svolgere il compito di assicurare liquidità al mercato perchè dovrebbero essere riautorizzati a operare in quanto soggetti extracomunitari. Si può ben immaginare il caos che ne deriverebbe. Un rischio che, in generale, le autorità hanno ben presente, tant’è che sono in arrivo (entro metà mese) i decreti per il mutuo riconoscimento, in applicazione delle disposizioni della Commmissione europea, che ha previsto un periodo “di grazia” di un anno per lasciare tutto come sta, anche in caso di no deal. Per quanto riguarda Mts, c’è poi un tema di tecnologia da preservare: il mercato utilizza la piattaforma Sia, ritenuta un fattore competitivo-chiave, con un contratto valido ancora per un biennio, mentre Londra utilizza altri sistemi. Ma questo è a prescindere dalla Brexit. Temi che potrebbero, ma non necessariamente, essere toccati lunedì quando il ministro del Tesoro Giovanni Tria incontrerà i vertici di Piazza Affari - il presidente Andrea Sironi e l’ad Raffaele Jerusalmi - in una visita comunque preannciata come di “cortesia”.
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