Lo spread tra Bund e BTp è notoriamente il termometro più utilizzato per misurare il rischio Paese. Ma se si fa il confronto tra il rendimento dei BTp e quello dei Treasury americani si scopre che il costo di rifinanziamento a 10 anni dell’Italia è superiore di appena 20 punti rispetto a quello della prima economia mondiale. Numeri a fronte dei quali i rischi finanziari legati al nostro debito pubblico risulterebbero, in apparenza, fortemente ridimensionati. Peccato che mettere a confronto il debito pubblico italiano con quello americano, come fanno molti sovranisti, sia un’operazione che non tiene conto di variabili come la differente politica monetaria di Fed (che dal 2015 ha alzato i tassi alla luce del miglioramento dell’economia) e Bce (che continua a mantenere il costo del denaro ai minimi storici). Insomma è un po’ come confrontare mele con pere.
Per fare un confronto al netto della variabile monetaria si può ricorrere ad altri strumenti come il rating o le quotazioni del mercato dei derivati Cds, strumenti che funzionano come polizze di assicurazione sul rischio insolvenza le cui oscillazioni, al pari di un premio per una polizza assicurativa, riflettono il maggiore o minore rischio default. L’andamento dei cds riflette le variazioni dei rendimenti dei titoli di Stato ma al netto del contesto di politica monetaria. Nel caso dell’Italia i prezzi dei cds segnalano una situazione di rinnovato rischio a partire da un anno fa in coincidenza con le tensioni finanziarie connesse all’insediamento del governo Lega-5 stelle. Prima che lo spread si impennasse a seguito della pubblicazione della prima bozza di contratto di governo (quella in cui si parlava di Italexit) il prezzo dei cds a 5 anni sul debito italiano viaggiava sotto la soglia dei 100 punti base.
In altri termini chi avesse voluto allora assicurare il proprio investimento in BTp comprando un derivato che lo coprisse in caso di default avrebbe dovuto sborsare meno dell’1% del controvalore investito. La cifra sarebbe più che raddoppiata nel giro di pochi giorni in coincidenza con le fibrillazioni sullo spread che hanno fatto schizzare il prezzo dei cds a 260 punti. Le quotazioni del derivato sarebbero salite fino a 274 punti a novembre nel pieno dello scontro con la Commissione sui conti.
Dopo l’intesa con la Ue anche i prezzi dei cds sono scesi ma restano oltre la soglia dei 200 punti base, numeri che fanno l’Italia il 17esimo Paese a maggior rischio default in una classifica che vede ai primi posti Paesi come l’Argentina, l’Ucraina, il Libano, la Turchia o l’Equador. La rischiosità del nostro Paese fotografata dal mercato dei cds è superiore a quella di Paesi emergenti come il Brasile, il Sudafrica, il Vietnam o la Russia nonostante questi abbiano un rating inferiore all’Italia. Quanto al confronto con gli Stati Uniti la distanza è abissale: il prezzo dei cds sul debito americano è di appena 14 punti base. Il prezzo dei cds sul debito italiano resta tuttavia molto distante dai picchi toccati durante la crisi dei debiti sovrani quando le quotazioni dei cds a 5 anni sull’Italia arrivarono a toccare quota 600 punti.
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