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Vedi altroLa sottovalutazione in Borsa espone Unicredit al rischio che uno o più fondi attivisti si facciano avanti per valorizzare il gruppo attraverso una qualche forma di break up. Un timore che da qualche mese ha contagiato i vertici del gruppo e lo stesso consiglio di amministrazione che, stando a fonti finanziarie de Il Sole 24 Ore, in almeno due distinte riunioni del board avvenute nei mesi scorsi, tra fine anno e l’inizio del 2019, ha ascoltato le relazioni degli advisor JpMorgan e Goldman Sachs sui rischi di un potenziale intervento di fondi attivisti e sulle contromisure potenziali che UniCredit può prendere per anticipare eventuali richieste dei fondi stessi.
Interpellata sul tema, la banca non ha rilasciato alcun commento. Va detto che quella di ascoltare relazioni firmate dagli advisor è in verità una prassi comune per una banca come UniCredit, così come per altre banche globali. E del resto è una pratica funzionale a rendere edotto il board sui rischi e sulle opportunità dello scenario. Rientrano in questa logica interventi su temi specifici come lo scenario macro, i tassi di mercato, l’etica aziendale o la sostenibilità, che ciclicamente vengono effettuati all’interno del board, in particolare dopo il rinnovo della governance del 2018. Ma è ovvio che un approfondimento sul tema strategico dei rischi legati all’attivismo dei fondi di investimento assuma un diverso rilievo, soprattutto nell’ottica delle mosse recenti effettuate da UniCredit.
Da public company oramai pura quale è, la banca di piazza Gae Aulenti del resto deve “proteggersi” da eventuali e potenziali fughe in avanti dei fondi attivisti. E l’obiettivo del board, dalle indiscrezioni che trapelano, resta quello di mantenere integro il perimetro industriale paneuropeo del gruppo liquidando tutte le partecipazioni finanziarie che generano plusvalenze e rafforzano il capitale. Anticipando così - e neutralizzandole, secondo l’auspicio del consiglio - eventuali richieste di fondi attivisti.
Rientrerebbe dunque in questa logica la recente sequenza di annunci di cessioni di asset “non core” voluta dal ceo Jean Pierre Mustier: dal patrimonio immobiliare in Italia, Austria e Germania fino alla vendita della quota in Fineco. Tutti asset su cui UniCredit ha registrato consistenti plusvalenze, destinate “idealmente” ad aumentare la capitalizzazione del gruppo. Fineco, che non aveva alcun legame industriale con la capogruppo e marciava come entità separata, sarebbe stato probabilmente il primo asset da vendere in caso di richieste di break up da parte di fondi attivisti. Non la quota in Mediobanca che, pur essendo finanziaria, è ancora sotto il prezzo di carico nel bilancio di UniCredit e dunque una sua cessione non genererebbe plusvalenze.
Del resto, se si guarda alla banca in termini di capitalizzazione su scala europea, si vede come l’istituto italiano (con 22,8 miliardi di market cap) rimanga tra gli ultimi in Europa, di poco al di sopra della francese SocGen (20,2 miliardi), banca a cui spesso il nome di UniCredit è stato associato in passato in vista di un potenziale merger. La stessa valutazione borsistica, a una quota circa 10,1 euro per azione, porta il rapporto tra prezzo e valore del patrimonio tangibile in area compresa tra 0,4-0,5 volte. Numeri che certo non danno merito al lavoro fatto dal management in questi anni sul fronte della pulizia di portafoglio, sul rafforzamento della dotazione patrimoniale e sugli investimenti in tecnologia. Peraltro, data la sua presenza paneuropea che la rende G-Sifi (ovvero banca di interesse sistemico), UniCredit deve da tempo fare fronte a una penalizzante normativa in termini di maggiori richieste di capitale rispetto ad altre banche. Da qua, quindi la massima attenzione dei vertici alle possibili contromosse da adottare nell’ottica di un possibile rafforzamento sul fronte patrimoniale, elemento che la renderebbe più solida in un’ottica di potenziale risiko in ambito europeo.
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