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Il petrolio Usa in zona «orso»? È la sintesi delle paure…

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L'Analisi |dopo i ribassi

Il petrolio Usa in zona «orso»? È la sintesi delle paure sull’economia

Il greggio, forse più d’una piazza azionaria nervosa ma parsa pronta a scommettere sui poteri salvifici della Federal Reserve quando si tratta di proteggere l’espansione, si fa termometro delle profonde tensioni che minacciano l’economia americana e globale. Il petrolio americano di riferimento, il West Texas Intermediate, è scivolato in un nuovo mercato ribassista dell’Orso, battendo in ritirata di oltre il 20% dai massimi raggiunti soltanto in aprile. Segno ben più che di semplici eccessi nell’offerta di greggio: a dominare sono le preoccupazioni per l’indebolimento della crescita, oggi aggravate dal contagio di guerre commerciali irrisolte.

Nessuna schiarita è giunta ieri sera nell’ultimo scontro aperto: è finita in una impasse la prima giornata di incontri tra le squadre negoziali di Messico e Usa, convocato a Washington per cercare un accordo che disinneschi la decisione di Donald Trump di imporre dazi su tutti i 350 miliardi di dollari di import messicano negli Usa se il paese limitrofo non fermerà adeguatamente i flussi di migranti centroamericani diretti a nord. I dazi iniziali, del 5%, entreranno in vigore da lunedì. Il calo dell’oro nero nelle ultime ore è stato un fenomeno globale. Il Brent ha visto i future scivolare del 2,2% a 60,63 dollari al barile. Ma il più penalizzato è stato il West Texas Intermediate, che ha ceduto il 3,4% a 51,68 dollari e che durante la giornata ha toccato i minimi dal 14 gennaio.

Catalizzatore dell’ultima ritirata sono state le scorte statunitensi di petrolio, benzina e altri derivati. L’aumento nell’ultima settimana pari a 6,8 milioni di barili è stato di quelli che si fanno notare: ha ribaltato attese di una flessione di 849.000 barili, ha portate le scorte al livello più alto dal luglio del 2017, nonché a una soglia del 6% superiore alla media degli ultimi cinque anni. Questi dati hanno sollevato lo spettro di eccessi di produzione, nonostante le sanzioni contro l’Iran e la crisi in Libia e Venezuela.

Alla radice dei bruschi movimenti sono tuttavia anzitutto i dubbi all’espansione mondiale - e anche americana, ormai vicina al record di longevità dei dieci anni che sarà raggiunto a luglio. Ancora ieri il managing director del Fondo Monetario Christine Lagarde ha ammonito che i dazi tra Stati Uniti-Cina, in atto e proposti, potrebbero tagliare la crescita globale di mezzo punto percentuale nel 2020. A evaporare sarebbero 455 miliardi di dollari di Pil, più dell’intera economia del Sudafrica. La Fed, per bocca del suo chairman Jerome Powell, da parte sua aveva citato proprio le protratte battaglia sull’interscambio per mostrarsi più aperta a interventi di stimolo e tagli dei tassi entro l’anno, anche se non mancano le perplessità sulla loro efficacia.

Le ombre sull’attività economica, che si rispecchiano nelle oscillazione del greggio, si sono addensate anzitutto sui consumi e sul settore manifatturiero nel secondo trimestre. L’indice Markit dei direttore degli acquisti delle imprese americane è sceso ai minimi da quasi dieci anni e flessioni sono avvenute in numerosi altri paesi. Stati Uniti e Cina mantengono tuttora livelli di espansione manifatturiera, con indicatori sopra quota 50, ma nazioni quali Germania e Giappone hanno evidenziato contrazioni nel mese passato.

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