Dal primo novembre Mario Draghi non lavorerà più nell’ufficio di presidenza della Bce, ma su quella che è stata la sua scrivania per otto anni lascerà impronte ovunque e in bella vista una cassetta degli attrezzi ben fornita, dotata di strumenti convenzionali e non convenzionali funzionanti, collaudati, oliati, pronti all’uso. Nella stanza dei bottoni, prima di andar via, alcuni rubinetti Draghi ha deciso di lasciarli aperti, e li ha persino sigillati con una chiusura a tempo che scatterà dopo la sua uscita di scena.
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La forward guidance è stata protratta nel tempo così che i tassi di riferimento resteranno fermi sui livelli attuali «almeno» fino a tutta la prima metà del 2020; il reinvestimento integrale, al ritmo in media di 20 miliardi al mese, del capitale rimborsato sui 2.600 miliardi di titoli acquistati con il Qe andrà avanti «per un prolungato periodo di tempo successivamente» al primo rialzo dei tassi e dunque, stando alle aspettative del mercato, potrebbe andare avanti fino al 2022 e oltre; le Tltro III scatteranno il prossimo settembre e rifinanzieranno le banche fino al marzo 2021. Inoltre, all’ultima riunione del Consiglio direttivo a Vilnius lo scorso giovedì, la discussione sulla riapertura del programma di acquisto di attività è stata avviata: se il riavvio del Qe non lo farà Draghi prima di andar via (dovesse l’inflazione allontanarsi troppo dal target su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine e il rallentamento economico peggiorare più del previsto), sarà facile per il nuovo presidente azionare l’App, basterà il pilota automatico che avrà le sembianze di Draghi.
Non da ultimo, dal momento che «il contributo positivo» dei tassi a -0,40% delle deposit facilities non è pregiudicato da possibili effetti collaterali sull’intermediazione bancaria, potranno in futuro calare ancor di più. E come ha chiarito Draghi, non è detto che la prossima mossa sui tassi della Bce sia al rialzo, la porta del taglio resta aperta. C’è dunque molto Draghi, e molto a lungo, nel dopo-Draghi. La transizione tra il vecchio e il nuovo presidente si preannuncia morbida, per non aumentare le incertezze già tante e «prolungate». Il condizionale resta però d’obbligo: i mercati sanno bene che molto, tutto, dipenderà dalla voglia del nuovo presidente di aprirla, quella cassetta degli attrezzi molto fornita, e del suo gradimento verso questo o quello strumento. Come ha sottolineato a Vilnius Draghi, le decisioni della Bce sono collegiali, è il Consiglio direttivo che decide. Tuttavia, il presidente della Bce tende a segnare la linea, indica la rotta, propone le innovazioni quando necessario, da lui ci si aspetta che sia in grado di pensare out of the tool box, fuori dagli schemi.
Se alla guida della Bce dovesse arrivare il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, a tutt’oggi considerato l’anti-Draghi per eccellenza nonostante di recente abbia abbassato qualche penna del falco versione Buba, i mercati si domanderanno subito che ne sarà del Qe, dei tassi negativi, delle OmTs, dato che Weidmann votò contro. Il colpo potrebbe essere attutito da un board «draghiano»: Philip Lane, molto vicino a Draghi e nuovo capo economista, ricoprirà dopo Draghi il ruolo chiave di preparare le discussioni del Consiglio direttivo. E se fosse Weidmann il nuovo presidente, Fabio Panetta,nuovo direttore generale della Banca d’Italia e molto vicino a Draghi, potrebbe entrare nel board al posto della tedesca Sabine Lautenschläger. Panetta ha conquistato le luci della ribalta quando ha difeso vigorosamente la posizione italiana sulla direttiva del bail-in: ma più importante ancora è stato il suo ruolo chiave dietro le quinte nell’ideazione e progettazione di gli strumenti non convenzionali al picco della crisi, come per esempio le Ltro a tre anni che sostituirono in un colpo un mercato interbancario paralizzato dalla crisi
Altri candidati in pole position alla presidenza della Bce, che dovrebbe essere decisa tra fine giugno e inizio luglio al più presto, sono poi considerati «draghiani»: il governatore della banca centrale finlandese Olli Rehn, i francesi Benoît Cœuré e François Villeroy de Galhau. Entrambi non nascondono mai che un presidente della Bce, nell’arco del suo mandato, può essere chiamato a salvare l’euro sotto attacco, a sconfiggere il rischio di deflazione, a contrastare recessione e disoccupazione, ad attraversare indenne turbolenze geopolitiche fortemente destabilizzanti come il protezionismo di Trump, Brexit. Insomma, come per gli otto anni di Draghi.
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