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Servizio |la partita delle tlc

Rete unica Telecom-Open Fiber: ecco il perché del tira-e-molla

Ancora prima di iniziare i negoziati, la partita per la rete unica, con l'unione Tim-Open Fiber, si è incagliata sullo scoglio del prezzo. Tim si è fatta l'idea che la joint Enel-Cdp valga 2,5 miliardi (in termini di enterprise value, equity più debito), Enel dice 6 più 2, 6 di valore della società e 2 di sinergie a vantaggio della compagnia telefonica che al termine del processo controllerebbe anche la rete in fibra. In mezzo c'è Cdp, sostanzialmente indifferente alla questione del prezzo, e preoccupata solo che non si tiri la corda al punto da compromettere la fattibilità dell'operazione, dal momento che il progetto dichiarato è quello di favorire l'unificazione delle reti, per dotare il Paese - senza duplicazioni e sprechi di risorse – di una dorsale di tlc a prova di futuro.

Per la Cassa i valori in gioco sono infatti del tutto relativi, considerato che è esposta su entrambi i fronti – col 9,9% del capitale ordinario Telecom e il 50% di Open Fiber – e che scambierebbe la propria quota nella seconda con azioni della prima.

Telecom, da parte sua, non può permettersi di riconoscere allo sfidante della fibra prezzi che a malapena la Borsa riconosce oggi all'intero gruppo, perché verrebbe immediatamente punita dal mercato. L'aggregazione delle reti è la principale carta che l'ad Luigi Gubitosi può giocarsi per risollevare le sorti del titolo, schiacciato a valori prossimi ai minimi storici da un assetto azionario e da una governance che certamente non possono dirsi né stabili, né lineari. E, dunque, non può permettersi di sbagliare, tanto più che non si può pensare di tenere a bada all'infinito i francesi di Vivendi, che fino a un p aio di mesi fa minacciavano fuochi e fiamme per uscire dalla scomoda posizione – nella quale li ha cacciati Elliott - di azionista di maggioranza relativa, ma in minoranza nel cda.

Se si può ipotizzare, a questo punto, che ci sia un comune sentire tra Telecom e Cdp, gli accordi tra i due soci di Open Fiber consegnano però all'Enel il coltello dalla parte del manico. Almeno in questa fase, col rischio che i tempi si dilatino pericolosamente. Tanto per cominciare lo statuto della joint della fibra fa divieto espresso di trasferire delle azioni fino alla fine dell'anno. Poi, secondo i patti, la cessione della quota di Cdp sarebbe comunque condizionata al gradimento del consiglio di Open Fiber, dove, in mancanza di accordo, la maggioranza non si troverebbe visto che Enel dispone di tre consiglieri su sei, col diritto a nominare l'ad fino a tutto il 2021. Senza contare il diritto alla prelazione e la possibilità di bloccare qualsiasi ipotesi di fusione, che richiede l'assenso dell'assemblea con la maggioranza dei due terzi.

In questo contesto spicca il silenzio della politica, che pure dovrebbe svolgere un naturale ruolo di mediazione. Tanto più che i due azionisti di Open Fiber fanno capo entrambi al Tesoro che, sulla partita della rete, è giocoforza esposto su due fronti. Da una parte con Cdp potrebbe favorire un progetto di medio-lungo periodo, per cercare di colmare il gap infrastrutturale del Paese; dall'altra con l'Enel, che uscirebbe monetizzando la quota, potrebbe incassare nel breve un dividendo straordinario dalla partecipata elettrica, utile a recuperare risorse in vista di una finanziaria impegnativa. Due esigenze non necessariamente inconciliabili: l'abilità sta nel mantenere l'equilibrio, per non spezzare la corda, e perdere così l'attimo fuggente.

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