Niente sembra in grado di riaccendere i prezzi del rame. Non è bastato uno sciopero in una delle maggiori miniere del mondo ed è servita a poco anche la (debole) schiarita sulle trattative commerciali tra Usa e Cina. Se il petrolio martedì era balzato del 4% all’annuncio dei colloqui tra Donald Trump e Xi Jinping, la reazione del metallo rosso è stata più composta: al London Metal Excange il prezzo ha raggiunto 5.974 $/tonnellata (base tre mesi), un record da tre settimane, ma di certo non si è innescato un rally.
Il rame – che ieri ha chiuso a 5.918 $ – scambia su valori storicamente deboli, non lontani dal minimo da due anni, un segnale che non dice niente di buono se è vero che il metallo funziona da barometro dell’economia mondiale.
Le aspettative degli investitori, almeno fino a poco tempo fa, restavano molto pessimiste. L’ultima fotografia del posizionamento degli hedge funds al Comex mostra un orientamento super ribassista sul rame: nella settimana all’11 giugno l’esposizione netta corta è aumentata ancora, arrivando a 52mila lotti, un record dal 2016.
In seguito non sembra esserci stata una vera e propria corsa alle ricoperture. Eppure gli spunti non sarebbero mancati, a cominciare dallo sciopero a Chuquicamata, miniera cilena di Codelco da cui proviene l’1,5% della produzione mondiale di rame (nel 2018 l’output è stato di 321mila tonnellate).
Lo sciopero – in corso da venerdì scorso, accompagnato da scontri tra polizia e minatori – potrebbe concludersi se l’assemblea accetterà una nuova proposta di accordo avanzata ieri dalla proprietà. Ma non ci sono certezze e le estrazioni minerarie a Chuquicamata sono già dimezzate rispetto ai ritmi normali.
Situazioni analoghe in passato avevano infiammato i prezzi del rame. Stavolta non è successo. Il metallo scambia tuttora in ribasso di oltre il 10% rispetto al picco di 6.608,50 dollari per tonnellata che aveva raggiunto ad aprile, quando la tregua tra Washington e Pechino sembrava a portata di mano.
C’è stata invece un’escalation nella guerra dei dazi e il quadro macroeconomico (con le potenziali ricadute sulla domanda di materie prime) ora spaventa il mercato. In Cina – Paese responsabile di oltre la metà dei consumi mondiali di rame – la produzione industriale a maggio ha registrato la crescita più bassa da 17 anni. L’attività manifatturiera sta frenando anche negli Usa, in Europa e in gran parte del mondo.
Per il rame come per il petrolio sono queste preoccupazioni a dominare l’attenzione, al punto da oscurare ogni altro fattore di influenza sui prezzi. Eppure Chuquicamata non è l’unico motivo di allarme per l’offerta di rame.
In Zambia Mopani Copper Mines, controllata di Glencore, lunedì ha chiuso una grande fonderia per manutenzioni che dureranno fino a fine anno. Nello stesso Paese Vedanta ha fermato un impianto a causa della scarsità di concentrati, mentre Konkola Mines è stata messa in liquidazione.
Nella migliore delle ipotesi la produzione mineraria di rame quest’anno resterà stabile a livello globale e la maggior parte degli analisti prevede che ci sarà un deficit di metallo. Secondo Bank of America Merrill Lynch mancheranno 362mila tonnellate, per Bmo Capital Markets 260mila.
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