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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2013 alle ore 08:59.

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«Beh, proprio una centrifuga non direi». La responsabile qualità ci corregge con pazienza: quella che a noi pare una scatola in movimento montata su un ripiano è in realtà un bioreattore da decine di migliaia di euro, le sue rotazioni proseguiranno per tre settimane a temperatura e velocità controllate per sviluppare secondo un rigido protocollo le cellule desiderate e produrre infine un farmaco biotecnologico antitumorale. Siamo nell'officina farmaceutica di Areta international (tre milioni di ricavi e 25 addetti, da pochi mesi entrata a far parte del gruppo veneto Fis), una delle 129 aziende biotech insediate in Lombardia, di gran lunga prima regione italiana del settore con un terzo delle imprese nazionali. Comparto che in termini di ricavi vale a livello nazionale oltre sette miliardi, due dei quali investiti in innovazione. «È la strada obbligata per restare competitivi – ci racconta l'ad di Areta international Maria Luisa Nolli –, il 30% dei nostri ricavi va in ricerca e il 90% dei nostri addetti è laureato».

Il biotech, come tanti altri settori industriali italiani, è caratterizzato dal nanismo delle imprese: l'88% ha meno di 50 addetti. Scarse anche le fonti di finanziamento, con il settore a rappresentare appena il 3,9% degli investimenti in aziende hi-tech dei fondi di private equity. Limiti che nel caso delle biotecnologie si cerca di superare concentrando la maggior parte delle imprese del settore all'interno di parchi scientifici per poter sfruttare servizi e laboratori a costi ridotti. Gli esempi lombardi sono numerosi, dalla fondazione Filarete al Parco tecnologico padano (si veda l'altro articolo) al Kilometro Rosso di Bergamo dove è presente parte dell'istituto Mario Negri. Areta, impegnata ad accompagnare le molecole dalla fase di ricerca alla sperimentazione clinica, è insediata all'interno dell'Insubrias Biopark di Gerenzano, forte di 19 aziende che operano prevalentemente nelle biotecnologie dedicate al mondo della salute. «In Italia far collaborare le imprese non è facile – dice il presidente del Bioparco Angelo Carenzi – ma noi possiamo mettere a disposizione strutture di ricerca e laboratori avanzati: insediarsi qui porta benefici evidenti e in effetti lo spazio disponibile per le aziende è già saturato».

A mettere a disposizione le proprie strutture è anche l'Università di Milano Bicocca, che affitta i propri laboratori a numerose Pmi. «Il nostro Biotechnicum Center – spiega il responsabile dell'unità Danilo Porro – occupa 15 persone a tempo indeterminato ma questa non è l'unica attività di trasferimento tecnologico. Siamo attivi nei biocarburanti e nelle bioplastiche, con il progetto di avviare a breve uno spin-off proprio in questo settore: anni fa solo gli Usa erano ricettivi in questi settori ma oggi l'Italia è cresciuta molto». Crescita legata anche ai bandi europei, che costringono aziende ed università ad unirsi per presentare progetti comuni. «Noi per esempio siamo capofila di un progetto da sei milioni – spiega Giuseppe Baselli, docente di bioingegneria del Politecnico di Milano – per valutare gli shock in terapia d'urgenza». L'importanza delle Università e dei centri di ricerca lombardi per le aziende biotech locali è testimoniata dalla massiccia presenza di questi enti all'interno dei cluster promossi dal Miur per razionalizzare le attività innovative. Nei tre progetti biotech, (agrifood, scienze della vita e chimica verde) sono infatti presenti Politecnico di Milano, Bicocca, Università degli Studi, Fondazione Parco tecnologico Padano e Fondazione San Raffaele. Proprio quest'ultimo ente è uno degli snodi principali lombardi nei rapporti tra ricerca e impresa, con un ufficio per il trasferimento tecnologico che dispone di oltre 120 famiglie di brevetti nel biomedicale e che nel corso del tempo ha attivato 350 contratti di collaborazione e accordi di licenza con 130 imprese, per la maggior parte lombarde.

Tra le intese raggiunte spiccano in modo particolare quelle realizzate insieme alle grandi multinazionali: Glaxo-Smithkline ha investito una decina di milioni per sviluppare terapie geniche nelle malattie rare e Merck-Serono cinque milioni per la ricerca pre-clinica. «Sanofi-Aventis – spiega il direttore scientifico Maria Grazia Roncarolo – ci ha scelto come sito prioritario per la ricerca e i fondi in arrivo dipenderanno dalla bontà dei nostri studi». Un modello diverso per il trasferimento tecnologico è adottato a Milano dall'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e dell'Istituto FIRC di Oncologia Molecolare (Ifom), che hanno creato una società adhoc, TTFactor, per gestire la collaborazione con le aziende. In due anni la società ha valutato più di 50 proposte di invenzione che hanno generato 13 famiglie di brevetti e 2 marchi e può vantare oltre 100 accordi siglati con controparti for-profit anche in settori non strettamente legati alla medicina: un esempio è l'accordo firmato con Heinz per sviluppare presso lo Ieo una ricerca nei prodotti dell'infanzia. Altro punto focale del biotech lombardo è la Fondazione Filarete, nata nel 2008 per iniziativa di Università degli Studi di Milano, Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo per supportare la nascita di start-up innovative. Le aziende incubate sono sette, l'ultima delle quali in ordine temporale è Tensive, nata lo scorso dicembre e attiva nelle tecnologie di rigenerazione dei tessuti. «I miei soci li ho trovati lì – spiega l'ad Alessandro Tocchio – e dunque l'esperienza di trasferimento tecnologico è positiva. Entro pochi mesi saremo pronti per il mercato e ora siamo nella fase di fund raising, non facilissima perché tra business angels e venture capital non c'è grande enfasi sul biotech».

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