
Non c’è pace per le cave di marmo bianco di Carrara, “custodi” di una delle eccellenze made in Italy apprezzate nel mondo. Ieri sera il consiglio regionale della Toscana si è ritagliato il diritto di legiferare sulla proprietà privata, e ha votato una legge che riporta al patrimonio pubblico tutte le cave che insistono nel territorio comunale, anche quelle in mano a privati (i cosiddetti “beni estimati”) in virtù di un editto del 1751 della duchessa Maria Teresa Cybo-Malaspina o di contratti antecedenti. Il passaggio è sostanziale: su 80 cave esistenti a Carrara, 65 hanno porzioni della superficie d’escavazione di proprietà privata (per sette cave addirittura il 100% è privato), che sulla base della nuova legge saranno ora sottoposte a concessione (con introiti diretti al comune di Carrara).
Nell’aula del Consiglio regionale sono risuonate – evocate dall’opposizione Forza Italia, Ncd e Fratelli d’Italia – espressioni come «esproprio proletario», «ritorno dell’ideologia comunista», politiche sovietiche. Ma, soprattutto, è stato sottolineato da più parti il rischio d’incostituzionalità della legge, che porterà a un diluvio di ricorsi da parte degli imprenditori lapidei, gli stessi che da mesi protestano furiosamente e presentano ricorsi contro il Piano paesaggistico regionale che pone vincoli alle possibilità d’escavazione, e la cui approvazione definitiva è stata rinviata al 17 marzo per la battaglia in atto interna al Pd (che in commissione ha approvato emendamenti al testo contro il parere della Giunta regionale e dell’assessore Anna Marson).
Ed è proprio nell’intreccio, a questo punto davvero ingarbugliato, tra Piano paesaggistico e legge cave (rimasta ferma per più di due anni, e poi a sorpresa portata all’approvazione) che si gioca il destino del distretto lapideo apuo-versiliese, una delle locomotive dell’export toscano negli ultimi anni grazie alle commesse internazionali. «L’obiettivo di questa legge è ricondurre lo sfruttamento di un bene pubblico alla certezza del diritto», afferma il presidente toscano Enrico Rossi, che vede nel futuro aumento degli introiti per il comune di Carrara (che oggi incassa 19 milioni all’anno tra oneri concessori e contributo regionale, la ex tassa marmi) una «perequazione necessaria che si tradurrà in benessere e servizi per il territorio». Il fatto che di regola, in Italia, le cave siano private, e che le uniche cave pubbliche siano ora quelle di Carrara, non ha dissuaso la giunta regionale, che però è conscia del terreno scivoloso su cui è andata a legiferare. «Chi farà ricorso ci aiuterà a fare completa chiarezza, una volta per tutte, su questa partita», ammette l’assessore alle Infrastrutture, Vincenzo Ceccarelli. Per avvocati e giuristi si apre un terreno di studio che sembrava superato dalla storia.
La promessa sbandierata dalla giunta per “giustificare” la pubblicizzazione delle cave è la spinta alla lavorazione del marmo all’interno del distretto: le concessioni per le ex cave private, diventate ora pubbliche, avranno una durata di sette anni, dopodiché il comune di Carrara bandirà una gara. Se però i titolari della cava si impegneranno a lavorare sul posto il 50% del materiale estratto, riconoscendo che il loro bene non è più privato, la concessione potrà allungarsi a 25 anni.
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