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Dossier E ora Milano deve saper stupire

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Dossier | N. (none) articoliSpeciale Expo 2015

E ora Milano deve saper stupire

L'Expo 2015 – più che una scommessa – è un banco di prova. Per Milano, laboratorio della nuova manifattura ibridata con i servizi: agroalimentare e medium tech, estetica del Made in Italy e contenuti culturali e di esperienza in ogni “cosa” economica. E per il Paese, che ha addosso gli occhi – per definizione severi – della comunità internazionale.
Non bisogna tacere dei ritardi organizzativi e delle ammaccature giudiziarie. Ma non va nemmeno trascurata la portata potenziale di una macchina da oggi in movimento.

L'Expo è il punto di intersezione fra proiezione globale e fisionomia identitaria locale. CE costituisce la vetrina dei contributi che Milano in particolare e il capitalismo produttivo italiano in generale sono in grado di apportare alle catene internazionali del valore, l'ordito intrecciato e stratificato che costituisce una delle principali ossature della realtà – economica e civile – contemporanea. Insomma, l'Expo è una buona occasione per capire se il declino italiano possa o no essere invertito. «L'Expo – riflette Piero Bassetti (classe 1928), una delle ultime anime di Milano – mostra la validità del paradigma della glocalizzazione. Un paradigma alternativo a quello della globalizzazione». Glocalizzazione come dialettica fra il vasto mondo e il codice genetico dell'Italia la cui missione storica è – per il Carlo Cipolla di “Allegro ma non troppo” – «produrre all'ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo». Glocalizzazione come effetto della diluizione degli Stati nazionali. E come risultato della costruzione di nuove geometrie economiche. In questo, l'agroalimentare – focus naturale di un Expo incentrato sull'alimentazione del mondo – è l'elemento più visibile. Ma non è l'unico. Ed esso stesso non ha soltanto una valenza economica. Ha anche una cifra storica e strategica. «Milano e la Valle Padana – ricorda Bassetti – sono stati per secoli l'Eldorado agricolo dell'Europa. Nell'abbazia di Chiaravalle i monaci cistercensi hanno ideato i sette raccolti all'anno adoperando le fogne di Milano per concimare la terra». Ecco che l'Expo si ricongiunge a una natura evocativa di Milano e le assegna (o, almeno, prova a farlo) un centro di gravità permanente per il futuro. «Questa manifestazione rappresenta per tutta l'economia di Milano un salto di scala», dice Matteo Bolocan (52 anni), geografo economico della facoltà di Architettura di Milano e presidente del centro studi Pim (Programmazione intercomunale area milanese). «Nonostante i mille ritardi – continua Bolocan – la costruzione materiale del sito e la sua organizzazione concettuale hanno valorizzato alcuni degli elementi fondamentali della nostra specializzazione economica: la cantieristica e la logistica, ma anche il trattamento degli acciai e del legno, la meccanica e l'elettromeccanica, la chimica per l'edilizia».

L'Expo, dunque, come fabbrica della tradizionalissima neo-modernità industriale, meneghina e italiana. Uno specchio in cui si riflette il paesaggio produttivo prima di tutto di Milano, che secondo l'Istat riconduce il 16,2% degli occupati totali alla manifattura (in particolare l'1,4% all'alimentare, il 7% alla meccanica e il 3,6% alla chimica). Alla realizzazione del sito di Expo 2015 hanno contribuito non poche delle 250 medie imprese internazionalizzate che l'ufficio studi di Mediobanca ha censito in questa provincia. Per edificare l'Expo – e per riempirlo di contenuti materiali e immateriali – sono state necessarie le competenze di quel medium tech – macchine utensili e cantieristica, chimica fine e metallurgia, materiali e componentistica – che costituisce una delle vocazioni specializzative centrali nella piattaforma culturale elaborata negli ultimi anni da Assolombarda: per l'ufficio studi di Via Pantano, è riferibile al medium tech il 7,7% degli occupati di tutta la regione, contro il 4,9% italiano. Nell'aut aut dell'Expo – baraccone oppure catalizzatore? – molto dipenderà dalla naturale attitudine italiana – nel bene e nel male – a trasformare le cose, facendole uscire dal loro perimetro formale. A Milano, come in Italia, il mercato prevale spesso sull'istituzione. Quello che capita liberamente al di fuori dei contesti formalizzati diventa energia per spingere pezzi interi di Paese. «Chissà se con l'Expo – riflette uno dei principali industrial designer italiani, Mario Bellini – in questi sei mesi capiterà qualcosa di simile a quanto è successo negli ultimi anni nella settimana del Salone del Mobile. L'esplosione del fuori salone ha contribuito a vivificare il clima cittadino trasformandolo in un fenomeno insieme comunitario ed economico».

Qualcosa di confusamente generativo, che ha anche – nel caso specifico del design – cementato la realtà di una industria del mobile in grado – grazie al mix di artigianalità e industrializzazione, propri del paradigma del medium tech – di realizzare le idee concepite altrove. «La felice dialettica fra dentro e fuori – riflette Antonio Belloni, trentaseienne autore da Marsilio del pamphlet “Food Economy. L'Italia e le strade infinite del cibo fra società e consumi” – si sta già originando. C'è un grande movimento di incontri business to business che, al di fuori dell'Expo, potrebbero per esempio aiutare le nostre Pmi a collegarsi con le grandi catene straniere». Il meccanismo di attivazione delle energie e l'ulteriore inserimento di Milano nei circuiti mondiali riusciranno a trasfigurare l'agroalimentare, a capitalizzare la dimensione da vetrina-show business e a vivificare quella più generale fisiologia che – fra manifattura e servizi – rimane la natura più intima del nostro tessuto produttivo? Sei mesi, dunque, di banco di prova. Con il realismo della ragione dato che - per usare un eufemismo -non tutto in questi anni è andato per il meglio. Ma, anche, con l'ottimismo del cuore. E l'auspicio che, alla fine, l'Expo riesca a stupire – con noi – tutto il mondo.

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