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Dossier Una spinta allo sviluppo da un nucleo di imprese

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    Una spinta allo sviluppo da un nucleo di imprese

    C'è ma non si vede: si chiama ufficio complicazione affari semplici ed è molto spesso presente nella macchina amministrativa del territorio. Governa, silenzioso, vari settori imponendo il proprio punto di vista con spreco di denaro pubblico e consequenziale trionfo delle occasioni mancate. È questa, se vogliamo, la cifra della Sicilia di oggi.
    Una Sicilia in cui il crollo del viadotto Himera sull'autostrada Palermo-Catania ha certificato quello che ormai in tanti pensavano da tempo: la separazione dell'Est dall'Ovest, il taglio netto tra due parti dell'isola che sembrano appartenere a culture diverse e a tratti contrapposte.

    Lo ha detto, in un impeto di moderato ottimismo per la propria città, il sindaco di Catania Enzo Bianco, che in un'intervista al quotidiano La Sicilia di qualche tempo fa si è spinto a ipotizzare la creazione di due macroaree sul modello del Trentino-Alto Adige. Che poi, in verità, non basta nemmeno questa suddivisione a definire la Sicilia di oggi, perché a ovest c'è da fare ulteriori distinguo e altre separazioni, lasciando a se stante l'enclave del potere e della macchina burocratica regionale, ormai avvertita da tutti come un orpello parassitario e improduttivo, con l'Assemblea regionale siciliana che appare agli occhi dei cittadini stremati dalla crisi e vinti dalle incertezze come l'ultimo epigono di privilegi e sprechi. Non che sia vero in assoluto, ma certo c'è una diffusa sfiducia che i deputati siciliani, che rivendicano gli stessi privilegi dei senatori della Repubblica, non colgono né vogliono accettare.

    La Sicilia di oggi sembra la protagonista di uno psicodramma pirandelliano: ritornata all'anno zero dello sviluppo, l'isola è una e centomila, secondo le caratteristiche dei tanti territori che la compongono, ma è nello stesso tempo il nulla, nessuno, una sorta di deserto riempito di chiacchiere e demagogia. Figlia del paradosso, protagonista indiscussa delle tante contraddizioni del nostro tempo, l'essere nulla diventa il luogo delle opportunità in cui tutto va rimesso in sesto, ricostruito, rilanciato. C'è l'appuntamento con la modernità, che fin qui i vari governi regionali hanno sostanzialmente rinviato utilizzando i fondi europei per alimentare la spesa corrente che deve sfamare almeno 150mila persone (i dipendenti della regione, dei Comuni, i lavoratori socialmente utili, i forestali, quello che rimane dei dipendenti della formazione professionale), rinviando alla prossima occasione tutti gli interventi strutturali. Intanto mancano gli investimenti dei privati, nonostante i grandi annunci, e interi settori rischiano il tracollo grazie all'opera dell'Ufficio complicazione affari semplici.

    Un esempio? Il settore dei marmi, che è stato fiore all'occhiello: l'assenza del Piano cave rischia di mettere in ginocchio il comparto. Questo insieme agli altri, si dirà, considerato che mancano all'appello strumenti di pianificazione strategici come il piano rifiuti, quello idrografico, mentre quello dei trasporti va aggiornato necessariamente entro il 2016 e quello energetico è talmente vago da aver condizionato pesantemente la spesa comunitaria. Piani che vanno definiti con urgenza perché, spiega il direttore generale del dipartimento programmazione Vincenzo Falgares, «questa volta la Commissione europea li pone come condizionalità ex ante e in alcuni casi come barriere all'accesso ai fondi». Il che, tradotto in parole semplici, significa che dall'Unione europea non arriveranno soldi se non saranno prima approvati i piani. In ballo ci sono 4,5 miliardi (compresi i cofinanziamenti nazionale e regionale). E siccome la Sicilia non si fa mancare proprio nulla restano appesi all'incertezza 2,739 miliardi della ormai precedente programmazione (anche se la nuova deve ancora partire): «Fondi che possono essere spesi grazie alle anticipazioni di cassa da parte della Regione, ma in queste condizioni c'è un problema di tenuta» spiega Falgares.

    Un tema quello della cassa e del bilancio della Regione che richiede nervi saldi, considerato che il debito si aggira ormai sugli 8 miliardi e che il disavanzo dell'ultimo bilancio è stato coperto grazie a un accordo con Roma che prevedeva, tra le altre cose, l'utilizzo di 673 milioni del Fondo di sviluppo e coesione a copertura della spesa corrente. Ancora una volta, dunque, risorse destinate agli investimenti e allo sviluppo sono state utilizzate per rattoppare i buchi creati, in gran parte, dalla spesa per il personale diretto e indiretto.
    Che lo si voglia ammettere o meno questo è il risultato delle scelte fatte negli ultimi trent'anni. Il Centro studi di Confindustria Sicilia ha fatto un raffronto tra la situazione attuale e il passato con risultati sconcertanti: nel 1981 la quota dell'industria manifatturiera (compreso il settore delle costruzioni) sul totale del valore aggiunto regionale era del 23%; oggi è del 14% e, al netto di utility e costruzioni, scende al 5,3 per cento. La quota del settore pubblico allargato, invece, è oggi del 30%, con una qualità giudicata molto scadente. «In questa regione - dice il direttore di Confindustria Sicilia Giovanni Catalano - manca una guida: c'è pochissima gente che parla di politiche per lo sviluppo». Così i siciliani hanno imparato a industriarsi, a cercare nuove vie e in qualche caso a fare come se la Regione non ci fosse.

    Lo hanno fatto, per esempio, andando all'estero per conquistare nuovi mercati o per creare joint venture e avviare nuove iniziative. Ma c'è anche un altro aspetto, secondo l'economista Adam Asmundo che cura la congiuntura Res, che fa aprire alla speranza e che al di là dell'export (in crescita in molti settori) riguarda la capacità delle imprese che investono e innovano. «Calcolare il peso di questa componente - dice Asmundo - non è facile, in termini assoluti si tratta di poche centinaia di imprese, con un numero medio-basso di dipendenti». «Quello che tuttavia è più rilevante - aggiunge Asmundo - è il peso culturale e sociale, prima che economico e reddituale, del modo in cui queste imprese operano, senz'altro assimilabile ai migliori esempi di best practice sui mercati globali».

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