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    L’Italia torna a investire all’estero: shopping per 9,3 miliardi a inizio anno, boom in Nordamerica

    Qualcosa si muove. Il processo di internazionalizzazione dell'economia – nel delicato tema dei capitali– continua ad avere dimensioni strutturalmente minori rispetto agli standard europei. Tuttavia, il nostro capitalismo sta esprimendo all'estero un buon dinamismo: nel 2014 gli investimenti italiani sono stati pari a 12,5 miliardi di euro, il triplo del 2013; da inizio 2015, ammontano a 9,35 miliardi di euro. Le nuove rotte sono tracciate soprattutto verso il Nord America. E non solo per Fiat-Chrysler. Sul fronte interno, dal 2008 i capitali esteri sono confluiti sulla nostra manifattura abbandonando la finanza e l'immobiliare .
    Dunque - elemento strategico tutt'altro che irrilevante - il nostro sistema economico appare sempre più incardinato – nella dinamica dell'equity controllato da azionisti stranieri - sull'industria pura.

    L'Italia che investe all'estero. Nel primo trimestre dell'anno nelle operazioni “guida” – quelle con valori superiori ai 200 milioni di euro – si rilevano segnali incoraggianti. Secondo la banca dati Reprint del Politecnico di Milano e dell'Ice, fra gennaio e marzo si sono contate cinque acquisizioni – finalizzate all'ottenimento di maggioranze assolute o minoranze qualificate (superiori al 10%) – che hanno sviluppato un valore complessivo di cinque miliardi di euro. Peraltro, il 7 aprile – dunque dopo la fine del primo trimestre – Lottomatica ha chiuso l'acquisizione di Igt per 4,35 miliardi di euro. Da inizio anno si sale a 9,35 miliardi di euro. Sotto il profilo quantitativo non è poca cosa: nel 2014 ce ne erano state in tutto quattro, per un investimento di 12,2 miliardi di euro, il triplo dei 4,3 miliardi di euro registrati con 4 deal nel 2013.

    «Sotto l'aspetto strategico – riflette l'economista Marco Mutinelli, gestore della banca dati – è un dato importante. Le operazioni sopra i 200 milioni di euro costituiscono le punte avanzate di un movimento di internazionalizzazione pulviscolare, fatto da piccole aziende». Queste operazioni “guida” – condotte dai grandi gruppi e dalle multinazionali tascabili - hanno un valore cruciale perché tracciano le rotte che, sui mercati globali, vengono seguite dalle piccole imprese, le meno strutturate - per i loro deficit finanziari e patrimoniali, organizzativi e strategici connaturati alla dimensione - ad andare all'estero ad acquisire società o a realizzare impianti industriali in piena solitudine, non in una ottica di filiera e di subfornitura.

    Queste operazioni “guida” sono dunque le componenti più articolate di un sistema di internazionalizzazione che, nel 2013, ha visto - a livello di grandezza stock - 11.342 investitori italiani avere in portafoglio all'estero 30.513 imprese controllate o con minoranza qualificata per un totale di poco più di un milione e mezzo di dipendenti. «Se nel 2013 – nota Mutinelli – l'88,5% di queste imprese avevano meno di 250 addetti, si può stimare che nel 2014 questa quota salga sopra il 90%».

    Gli stranieri che acquistano in Italia. Nel primo trimestre dell'anno, sempre secondo la banca dati Reprint, ci sono state cinque operazioni condotte in Italia – su aziende italiane – da imprese straniere, per un valore di 2,4 miliardi di euro. «Peraltro – nota Mutinelli – in questa statistica mancano deal non ancora ultimati come Chem-China Pirelli e Hitachi-Ansaldo che da soli valgono oltre 5 miliardi di euro». Questo, in un paesaggio industriale segnato da 9.367 imprese a partecipazione estere, che hanno 915mila dipendenti e che sviluppano un fatturato annuo di 497 miliardi di euro. Tornando alla dinamica, in tutto il 2014, gli interventi stranieri nel nostro Paese sono stati 20 per un valore di 16,8 miliardi di euro.

    In netto aumento rispetto ai 10,7 miliardi sviluppati da 12 casi nel 2013 e rispetto ai 6,2 miliardi di euro (sempre con dodici interventi) del 2012. Al giro di boa della grande crisi, l'allocazione dei capitali internazionali mostra la profonda vocazione manifatturiera – e la coscienza che di essa si ha all'estero – del nostro sistema economico. I capitali stranieri hanno infatti scelto di stare sull'industria e di ridurre la finanza e l'immobiliare: su questi ultimi comparti, se fra 2003 e 2008 il valore era stato di 39,5 miliardi, dal 2009 al 2014 è crollato a 4,1 miliardi; nella manifattura, invece, fra 2003 e 2008 il valore delle operazioni è ammontato a 37,8 miliardi per poi attestarsi, dal 2009 al 2014, a un comunque brillante 33,6 miliardi di euro. Una osservazione strategica: a livello di flussi, considerando le aziende italiane con almeno 50 occupati, nel 2012 i nuovi investimenti diretti esteri nell'industria “pura” hanno riguardato imprese con 12mila addetti. Questo dato occupazionale è salito a 15mila con gli interventi del 2013 e a 23mila con quelli del 2014.

    Gli elementi di debolezza intrinseca. Al di là dei buoni segnali percepibili in questo ultimo anno e mezzo, il capitalismo italiano resta con un grado di internazionalizzazione minore. Questa è la sua principale contraddizione: la capacità all'estero di orientare “correnti” di merci prodotte in Italia e l'abilità di assorbire materie prime straniere per realizzare parti essenziali del nostro Made in Italy è unita a una minore forza – relativa – nella capacità di andare all'estero e di attrarre capitali stranieri. «Basta osservare le consistenze – spiega Fabrizio Guelpa, responsabile del servizio Industry and Banking dell'ufficio studi di Intesa Sanpaolo – nel 2013 gli Ide in entrata in Italia valevano 404 miliardi di dollari, la metà degli 852 miliardi in Germania. Meno anche dei 716 miliardi in Spagna. Due volte e mezzo in meno degli 1.081 miliardi di dollari della Francia. Quattro volte in meno degli 1.606 miliardi della Gran Bretagna».

    La stessa debolezza strutturale relativa è desumibile dagli investimenti diretti esteri in uscita. Nel 2013, secondo l'Unctad, la consistenza degli Ide in Italia è stata pari a 598 miliardi di dollari, a fronte degli 1.072 miliardi dei Paesi Bassi, degli 1.637 miliardi della Francia, degli 1.710 miliardi della Germania, degli 1.259 miliardi della Svizzera e dei 643 miliardi di dollari della Spagna.
    Sulla gracilità italiana sul mercato internazionale dell'equity industriale, testimonia la rabdomanticità delle statistiche: fra 2000 e 2013, gli Ide italiani all'estero – in grandezza flusso – calcolati in percentuale del Pil hanno avuto una significativa variabilità: dallo 0,61% del 2000 al 4,52% del 2007, dallo 0,4% del 2012 all'1,53% del 2013.

    Non esiste, dunque, una tenuta di medio periodo. Sempre ragionando con grandezze flusso, gli investimenti diretti esteri in entrata in Italia appaiono in valore assoluto minimi: a parte il 2006 e il 2007 (2,27% e 2,06% del Pil) questo indicatore fatica a uscire, negli ultimi dieci anni, dall'intorno compreso fra un punto e un punto e mezzo del Pil.
    «Nel 2012 – nota Eleonora Mazzoni, una delle curatrici del Rapporto sull'internazionalizzazione del Centro Europa Ricerche – questo indicatore diventa quasi statisticamente non rilevabile: vale lo 0,005 per cento». È il punto più basso della (in)capacità italiana di offrire un ambiente economico e istituzionale, giuridico e amministrativo in grado di attrarre i capitali esteri.

    Le nuove rotte sui mercati globali (dei capitali). In uno scenario tanto complesso, appare di grande interesse la progressiva elaborazione di nuove mappe geo-economiche. Il capitalismo globalizzato è una gigantesca tecnostruttura composta nel suo sistema scheletrico da fabbriche e innovazione, nei suoi circuiti linfatici da servizi e nel suo apparato circolatorio da finanza per l'impresa. Soldi. Prima di tutto equity. Follow the money, è il caso di dire. Infatti, nell'analisi della banca dati Reprint dell'Ice e del Politecnico di Milano condotta sulle operazioni “guida” (sopra i 200 milioni di euro, come abbiamo detto), la nuova rotta per i capitali italiani è il Nord America.

    Adottiamo un punto di vista non di breve periodo. Fra 2003 e 2008, un passaggio segnato da un minimo di ristrutturazione del nostro sistema industriale post euro, in termini di numero di operazioni l'Europa occidentale vale il 66,7% e il Nord America il 6,2 per cento. Fra 2009 e 2014 le cose cambiano. L'Europa pesa per il 45,2 per cento. Il Nord America sale al 22,6 per cento. «Si tratta di un mutamento radicale – osserva Mutinelli – che sancisce il passaggio verso un nuovo equilibrio». Non c'è solo l'effetto Fca, l'operazione di Fiat su Chrysler. C'è il cambio euro-dollaro, a lungo favorevole alla moneta europea. E c'è la svolta neomanifatturiera americana, iniziata con George W. Bush e spinta con convinzione da Barack Obama: sostegno all'industria dell'auto, più in tutti i settori aggressive politiche di attrazione degli investimenti, di cui anche le imprese italiane hanno beneficiato.

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