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Dossier Aprirsi al mondo è l’unica opzione

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    Aprirsi al mondo è l’unica opzione

    «Sa, quando ho visto che arrivavano i cinesi ero perplesso, pensavo finisse tutto lì. Però l'azienda è ripartita, lavora più di prima, i pagamenti arrivano».
    Francesco Zema, fornitore meccanico varesino, è diventato uno “sponsor” degli investimenti esteri, la globalizzazione gli appare con un volto positivo. Quello della CB Ferrari, azienda di macchine utensili rilevata sull'orlo della crisi nel 2011 da un gruppo cinese e risollevata con nuovi investimenti, ricavi lievitati da 15 a 26 milioni, una ventina di addetti in più, l'indotto riconfermato nel proprio ruolo.

    È la traduzione “micro” dei fenomeni più vasti che interessano l'intero pianeta, un flusso di investimenti esteri in entrata e in uscita crescente nel tempo ma ancora più variabile nelle sue direttrici di sviluppo, una massa di miliardi che plasma l'economia globale. Nel 1990 l'Europa catalizzava ancora il 50% dei flussi mondiali di investimenti esteri, una torta da 207 miliardi di dollari. Risorse ora lievitate di sette volte, con una quota europea ridotta ad appena il 17%. Trend inarrestabile, che in parte alimenta e in parte si adatta allo spostamento delle quote di produzione della ricchezza globale. Dove la Cina (16,5%) da sola pesa ormai quanto l'intera Europa, che appena 15 anni fa valeva il triplo di Pechino. Un mondo nuovo, in cui le prospettive di sviluppo per i singoli paesi sono legate da un lato alla capacità di intercettare una parte dei miliardi “in uscita” dalle altre nazioni, dall'altro alla bravura nel saper cogliere oltreconfine le opportunità di crescita, investendo e ampliando la presenza diretta per poter servire nuovi mercati.

    Partita che l'Italia sta provando a giocare, forse più a livello “individuale” che sistemico, e i cui risultati sono visibili nelle reciproche interdipendenze: qui da noi vi sono più di 9mila imprese a partecipazione estera con quasi un milione di addetti; oltreconfine “governiamo” 30.513 aziende con 1,5 milioni di dipendenti. La crescita dei flussi è in effetti mostruosa e ogni giorno, sabati e domeniche inclusi, il mondo mette sul piatto quattro miliardi di dollari, fondi in cerca di un approdo e su cui sarebbe bene provare a mettere le mani. Senza scottarsi però. A tavolino, e potendo scegliere, ci piacerebbe avere solo investimenti green field, aperture di nuovi laboratori, oppure ampliamenti produttivi. Insomma, sviluppo e manifattura, occupati e ricchezza, tecnologia e sorti progressive. Evitando dunque acquisizioni mordi e fuggi, perdita di controllo sui brand, svuotamento e delocalizzazione delle attività. Cosa serve perché ciò non accada, perché i fondi esteri restino qui?

    In passato capitava più facilmente, quasi in modo automatico: l'Italia era un mercato ghiotto, con la corsa dei consumi a creare le condizioni per una presenza stabile e proficua delle multinazionali. Una scelta efficiente, quindi. Oggi, con la quota italiana sulla ricchezza mondiale ridotta di un terzo rispetto al 2000, chi resta ha bisogno anche di altro. Ad esempio di know-how, della rete unica di fornitura, delle tante specializzazioni manifatturiere del territorio, della capacità artigianali del made in Italy. Un fatto che porta ad esempio Audi ad alimentare la produzione di Ducati, i cinesi a continuare ad investire in Cb Ferrari, le multinazionali della farmaceutica e del biomedicale a sviluppare il nostro ruolo di hub europeo per l'export, gli statunitensi di Mohawk a puntare un centinaio di milioni di investimenti nel distretto di Sassuolo dopo aver rilevato Marazzi. I casi virtuosi non mancano ma per fare in modo che si moltiplichino è il Paese a dover fare un passo in più. Come ogni commerciante sa bene, la vetrina è importante (ottima idea il Piano Destinazione Italia), ma per fidelizzare il cliente serve poi il prodotto. Che in questo caso è un mix di giustizia civile e fisco, energia e costo del lavoro, università e reti in fibra ottica, flessibilità nell'occupazione e infrastrutture, tassazione locale e burocrazia. “Prodotto” su cui esistono senza dubbio ampi spazi di miglioramento. Altri, meno pazienti dei giapponesi di Daikin, dopo quattro anni di attesa nel rimpallo tra istituzioni locali e sovrintendenze, avrebbero ad esempio scelto di investire altrove 7,5 milioni di euro per un nuovo impianto ad Ariccia, che invece alla fine per fortuna si farà, dando lavoro a 50 addetti.

    Una svolta serve anzitutto qui, nel funzionamento del Paese, per sincronizzarci con i tempi del mondo, comunicando ai potenziali investitori che l'Italia non è solo bellezza e cibo, spiagge e cultura ma anche efficienza e precisione. Ecco perché la ripresa dei flussi dall'estero registrata dagli ultimi dati è quanto mai benvenuta, così come altrettanto importante è vedere un aumento della proiezione estera italiana in senso contrario. Perché, nonostante tutto, non abbiamo solo prede, ma anche aziende capaci di porsi come poli aggreganti, in grado di guardare oltreconfine per rilanciare lo sviluppo, come dimostrano i casi raccontati in queste pagine e altri ancora, per fortuna numerosi: Fca, grazie all'integrazione con Chrysler, è oggi indubbiamente un gruppo più forte e l'apertura del mercato Usa per le auto nazionali è tra i motivi del boom dell'export di questi mesi, che a sua volta, insieme alla ripresa della domanda in Italia, rianima l'occupazione nelle fabbriche; per Same Deutz-Fahr, che ha aperto impianti in Cina, India e Turchia, la produzione locale extra-Ue è il puntello principale al nuovo record di ricavi, al bonus annuo da 4.500 euro per ciascuno dei 1300 addetti di Treviglio, alle nuovi assunzioni in Italia a cominciare dalla ricerca; in soli due anni l'impianto di pasta fresca aperto da Rana a Chicago è arrivato a 100 milioni di dollari di ricavi, quasi il 20% del giro d'affari del gruppo. Una presenza estera spesso inevitabile, guardando all'evoluzione dei mercati. Già oggi, ad esempio, la Cina è il maggior consumatore mondiale di macchine utensili: nella fascia alta di gamma l'export dall'Italia resta un'opzione, nel mid-market invece no.

    «Se non produci lì - spiega il presidente di Prima Industrie Gianfranco Carbonato - semplicemente non sei competitivo». Il produttore di laser, multinazionale basata a Torino, oggi esporta versa Pechino 40 milioni di euro all'anno, cifra che raddoppierà, proprio grazie alle componenti assorbite dal nuovo impianto cinese. E' un mondo nuovo, più complesso, e il futuro del Paese si gioca sulla duplice capacità di investire altrove continuando ad attrarre risorse qui. Un campo di gara allargato, con regole in parte diverse e avversari che si moltiplicano. Partita che in un modo o nell'altro dobbiamo comunque giocare, scappare con la palla non è un'opzione.

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