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Dossier A rischio la corsa del biotech

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    A rischio la corsa del biotech

    Se il nostro paese non lo fa, ci pensa il mondo a valorizzare, nel vero senso della parola, il biotech italiano. «Imprese che hanno raccolto 20, 30 milioni di capitale quando sono state fondate, qualche anno fa, sono poi state vendute a 4-500 milioni. Non solo per la bontà della ricerca, ma anche per la capacità dei manager di trasformare la ricerca in impresa. E impresa di valore».

    Alessandro Sidoli, presidente di Assobiotech, racconta con orgoglio il biotech da questa angolatura. Quella dell'accordo MolMed-Gsk per la fabbricazione in fase di sperimentazione da parte di Gsk, di una terapia genica per uso compassionevole in pazienti con Ada-Scid. Gsk ora sta continuando lo sviluppo clinico in collaborazione con Hsr-Tiget. O di Ethical Oncology Science (Eos), una realtà emergente nel campo della biofarmaceutica per il trattamento del cancro, che è stata invece acquisita da Clovis oncology per 420 milioni di dollari. Ma anche di Jazz Pharmaceuticals che ha offerto a Gentium 57 dollari per azione per l'acquisizione di tutte le azioni. La transazione è stata valutata circa un miliardo di dollari: le azioni di Gentium sono aumentate fino al 600% dal gennaio del 2013. E poi Silicon Biosystems, le cui tecnologie sono utilizzate per la diagnosi avanzata del cancro, è stata acquisita da Menarini. O ancora: dopo l'annuncio del raggiungimento precoce dell'end point e la relativa conclusione anticipata della sperimentazione clinica di un suo prodotto Intercept ha quadruplicato il suo valore. Senza dimenticare Okairos, un'azienda italiana in fase clinica, che è stata assorbita da Gsk per 250 milioni di euro cash: in passato ha raccolto 23 milioni di euro in venture funds e 25 milioni in grant di ricerca.

    Quando si parla di biotech in Italia si parla di 422 imprese censite nel report 2013, con un fatturato intorno ai 7,2 miliardi, investimenti in ricerca poco sotto i 2 miliardi e 55mila addetti. Le storie delle acquisizioni sono molteplici e Sidoli prova a dare la sua spiegazione. Quella di un imprenditore che ormai da molti anni è presente sul mercato italiano e ne osserva l'evoluzione. Non sempre facilitata dal sistema Italia. «Nel 2014 il mondo è basato sull'economia della conoscenza: questo è l'assioma di partenza – spiega –.
    Le biotecnologie non sono un settore merceologico ma raggruppano campi di applicazione diversissimi e hanno un impatto sulla vita dell'uomo straordinario». In molti suoi ambiti. L'agricoltura, l'alimenzione, la medicina. Un fenomeno percepito da tutti i paesi, quelli sviluppati come quelli emergenti. Non a caso in questa crisi mondiale il biotech si è rivelato un settore anticiclico: i dati italiani – e non solo – dicono che i principali indicatori stanno passando pressoché indenni attraverso le strette maglie di questa crisi. Quello che però «differenzia l'Italia dal resto del mondo è che purtroppo le nostre imprese non hanno avuto un sistema incentivante favorevole agli investimenti in ricerca e sviluppo – spiega Sidoli –. Nel biotech mediamente le imprese investono il 24-25% del loro fatturato in ricerca e sviluppo. Per chi fa biotech puro, poi, questa percentuale cresce fino al 40% e quasi tutti gli addetti sono dedicati alla ricerca.

    Dati straordinari, noi abbiamo in Italia una qualità della ricerca alta che produce molto bene pur avendo meno ricercatori per numero di abitanti rispetto ad altri paesi. Ma non abbiamo una capacità eccelsa di trasformare la ricerca in brevetti e impresa». La moltiplicazione di storie di successo e di acquisizioni di cui sono state protagoniste start up italiane, però dimostrano che gli sforzi di molti scienziati del nostro paese non sono stati inutili.

    «Si potrebbe fare molto di più – sostiene Sidoli – se esistessero le condizioni di supporto. In Italia uno degli strumenti elettivi è il credito di imposta che va a scontare in percentuali importanti gli investimenti in ricerca e sviluppo che un'impresa fa». È una misura adottata da anni dai principali paesi europei. La via italiana è però singolare. «L'ultimo credito di imposta era quello sull'occupazione qualificata del governo Monti: ebbene non sono ancora usciti i decreti attuativi. Adesso con il premier Renzi si parla di un credito di imposta per un totale di 600 milioni di euro in tre anni: siamo ancora qui che aspettiamo di vederlo. Le imprese sono allo stremo dal punto di vista finanziario e non riescono nemmeno a incassare i crediti sul finanziamento di progetti di ricerca eseguiti e terminati da anni. Non dimentichiamo che le Pmi hanno un orizzonte di cassa di 6 mesi».

    L'Italia è un paese schizofrenico che si ritrova grandi qualità ed eccellenza, ma non riesce a costruire l'ambiente favorevole alla ricerca: anzi c'è un ambiente sfavorevole. «La burocrazia, per esempio, sta facendo a pezzi tutti – cita Sidoli –. Provare per credere, ma il dispendio di energie per correre dietro a cose inutili crea una situazione allucinante».
    Nell'avanguardia del biotech, la bioeconomia già oggi ha un peso straordinario: in Europa ha 22 milioni di addetti. In Italia il peso sul pil si ferma allo 0,7%, mentre a livello internazionale pesa in media per l'1% e ci sono stime che prevedono che il peso sul pil possa arrivare anche al 2,5-3%. Senza tralasciare che studi diversi dimostrano la stessa evidenza e cioè che per ogni nuovo addetto si generano 6 nuovi addetti nell'indotto, contro l'1,6 generato in media dai settori più tradizionali. Un paese che vuole favorire la ripresa dell'occupazione deve investire nei settori innovativi e il biotech è senza dubbio uno di quelli. «Non vorrei sembra approssimativo – osserva Sidoli – ma è un po' come la nuova informatica. È qualcosa che impatta su tutto e per questo tutti stanno investendo in questo settore che può veramente cambiare la vita delle persone. Ha caratteristiche uniche, del resto: chiede investimenti in ricerca molto elevati, il tasso di successo dei prodotti è basso, il tempo per portarli sul mercato è lungo e questo significa che servono ingenti capitali.
    Nel mondo anglosassone la finanza ha guardato con interesse fin da subito a questo settore e ha investito capitali importanti. In Italia il mondo della finanza non ha fondi specializzati nel settore e questo non attira i fondi stranieri per cui mettere insieme i capitali è molto difficile.

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