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Expo, a Lisbona la migliore eredità dell’evento

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COSA INSEGNANO I PRECEDENTI

Expo, a Lisbona la migliore eredità dell’evento

Il caso più significativo è quello di Lisbona 1992, che ebbe meno visitatori del previsto (poco più di 10 milioni anziché 15 milioni) e chiuse con una perdita di circa 550 milioni di dollari per la società di gestione. Eppure, è considerata uno degli esempi più virtuosi nella storia delle Esposizioni, non solo per la qualità dei contenuti, ma soprattutto per il suo lascito alla città.

«Tutto è stato pianificato dall’amministrazione comunale, sin dall’inizio, pensando al dopo evento», dice Valeria Bottelli, presidente dell’Ordine degli Architetti di Milano, che da oggi inaugura «Expo dopo Expo», mostra fotografica che testimonia il destino dei siti che hanno ospitato le passate Esposizioni in sei città europee. Fu scelta un’area marginale e sottosviluppata della capitale, che oggi è stata trasformata in una zona residenziale e ricca di verde e pienamente integrata alla città. Al polo opposto si trova Siviglia, che nel 1992 ospitò una delle Esposizioni di maggiore successo, con oltre 40 milioni di visitatori e ricavi superiori ai costi. «Eppure - spiega Bottelli - la città non è stata capace di inventare un futuro coerente per l’area, che ospita oggi servizi disomogenei e poco integrati con il restante tessuto urbano».

Un flop sotto ogni punto di vista fu invece Hannover 2000: oltre 5 miliardi di euro (10,2 miliardi di marchi di allora) investiti per una manifestazione che attirò appena 18 milioni di visitatori (contro i 40 milioni attesi) e chiuse con un deficit di oltre 700 milioni di euro. Shanghai 2010 è un caso a sé, sia per le dimensioni (73 milioni di visitatori), sia per l’ampia disponibilità di investimenti del governo cinese in occasione dei grandi eventi: quasi 4 miliardi di euro per la realizzazione di Expo 2010, contro appena 1,5 miliardi di ricavi. E infinite polemiche sul trasferimento forzoso degli abitanti dell’area su cui è stato realizzato il sito, che oggi, sebbene ancora in via di sviluppo, appare ben integrata alla città (ad appena tre fermate di metro dalla centrale People’s Square), con un mix polifunzionale di strutture culturali (il monumentale Padiglione Cina è stato convertito in Museo di arte contemporanea cinese) e commerciali.

Il dopo-Expo milanese dovrà fare scuola di queste esperienze: il successo di pubblico e immagine, da soli, non bastano a decretare il valore di un’Esposizione o ad assicurarne l’impatto positivo per il Paese. Ma nemmeno il pareggio di bilancio. Certo è auspicabile che anche i conti tornino ma, come fa notare Alberto Dell’Acqua, professore di finanza aziendale allo Sda Bocconi e coordinatore del team che nel 2008 diede vita al primo studio sull’impatto economico di Expo 2015, «se guardiamo alla storia delle Esposizioni universali, in pochissimi casi (11 su 37, ndr) i ricavi sono stati superiori alle spese. Ma sarebbe sbagliato dare troppo peso solo a questo aspetto». Quello che conta, spiega ancora Dell’Acqua, sarà analizzare, a consuntivo, la «legacy» dell’evento, il suo lascito, che si potrà calcolare solo nel medio lungo termine, principalmente lungo quattro direttrici: numero di nuove imprese nate (e consolidate); attrazione di investimenti diretti esteri e scambi commerciali attivati; aumento del turismo e valorizzazione del comparto immobiliare. Senza dimenticare che anche se i biglietti venduti e le royalties non bastassero a coprire gli 1,3 miliardi spesi dalla società Expo spa, vanno considerati gli effetti indotti dal miliardo di euro circa investito direttamente in Italia dai Paesi ospiti.

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