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Oil&gas, futuro incerto a Ravenna

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ESTRAZIONI

Oil&gas, futuro incerto a Ravenna

Stretto tra la crisi del petrolio e il blocco delle estrazioni a mare, il polo oil&gas di Ravenna – il più importante distretto industriale del settore nel Paese – rischia lo stop a 400 milioni di investimenti capaci di generare ricavi per circa 1,5 miliardi. Con il no di dieci Regioni alle trivellazioni previste dallo Sblocca Italia, attraverso il referendum abrogativo, per 120 aziende (40 dirette, 80 nell’indotto) si è aperta una fase di grande incertezza.

Il polo romagnolo sviluppa un fatturato di circa 3 miliardi di euro e occupa complessivamente 11mila addetti, dei quali 8mila nell’indotto. Grandi numeri che potrebbero essere drasticamente ridimensionati, con una flessione dei livelli occupazionali. Una prospettiva di fronte alla quale gli industriali ravennati propongono di replicare a livello nazionale il modello dell’accordo tra la Regione Emilia Romagna e il Governo (intesa siglata in luglio) sulle attività di estrazione a terra. Proprio l’Emilia Romagna è tra la regioni che si sono sfilate dal fronte dell’opposizione alle trivelle, bocciando la consultazione popolare. Posizione ribadita dal presidente Stefano Bonaccini. Ravenna la sua scelta l’aveva già fatta un anno fa, quando imprese, sindacati ed enti locali avevano condiviso la necessità di riprendere le estrazioni di idrocarburi nell’Adriatico. Un via libera, nel rispetto della sicurezza e della tutela ambientale, che poi è diventato la matrice dell’accordo con il quale Regione e Governo hanno fissato i primi paletti, a partire dalla semplificazione delle procedure burocratiche e dal coinvolgimento nelle decisioni di tutti i territori interessati alle trivellazioni. «La crisi – dice Franco Nanni, presidente di Roca, l’associazione a cui fanno capo i contrattisti ravennati off shore – è in realtà di lunga data. È iniziata nel 1995 con il blocco delle perforazioni nell’Alto Adriatico che ha interessato quindici giacimenti per circa una trentina di pozzi. Molte aziende hanno cercato nuove opportunità all’estero ma con la crisi del petrolio la situazione si è notevolmente aggravata. Con un paradosso: da noi ci sono le restrizioni mentre la Croazia, dall’altra parte dell’Adriatico, continua a perforare».

È lo stesso presidente degli industriali ravennati, Guido Ottolenghi, a ricordare che la provincia romagnola è ormai «considerata la culla hi-tech globalizzata delle attività up-stream, un patrimonio importante dal punto di vista economico e professionale per la regione e per l’intero Paese». Dal Ravennate, infatti, proviene circa la metà dell’energia regionale. A sua volta l’estrazione di metano nell’area del Nord Est rappresenta la gran parte della produzione nazionale. La soluzione, per Confindustria Ravenna, c’è: si basa sullo sviluppo di un mix energetico ad alta sostenibilità ambientale, tra metano ed energie rinnovabili, sull’impiego di tutte le fonti per ridurre le importazioni di energia e favorire sviluppo e occupazione, sulla diversificazione dell’approvvigionamento. Alcune imprese hanno già cominciato a ridurre la manodopera. Altri, come la Fratelli Righini, 30 milioni di fatturato e 80 dipendenti, cercano di salvaguardare i posti di lavoro. «Ma i quesiti referendari – dice l’amministratore Renzo Righini - mettono in forse anche gli investimenti dell’Eni. Solo una ripresa delle perforazioni potrebbe rimettere in moto il settore».

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