Economia

Svolta «light» nei piani dei consulenti

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Svolta «light» nei piani dei consulenti

Ridurre la capacità produttiva e introdurre nuove tecnologie di produzione, con impatti positivi sul fronte ambientale, ma inevitabilmente negativi sull’occupazione. C’è tutto questo nell’Ilva immaginata dai piani industriali e dagli studi di fattibilità che, in queste settimane, stanno circolando tra gli addetti ai lavori e sui tavoli ministeriali.

I documenti che provano a tracciare, almeno in linea teorica, alcune linee guida su quella che potrebbe essere l’Ilva del futuro sono almeno tre. A questi si aggiunge uno studio di fattibilità redatto dal Politecnico di Milano, che passa in rassegna le sinergie che potrebbero emergere da un’eventuale integrazione tra gli asset del gruppo Arvedi e gli impianti di Taranto. Un primo elemento di sinergia tra i due produttori italiani di piani è rappresentato per esempio dalla produzione di coke di Trieste. Esistono inoltre anche integrazioni di tipo commerciale e di tipo geografico, vista l’attuale concentrazione dell’attività di Arvedi nel Nord Italia.

Sul piano più strettamente industriale, invece, i tre piani (lo studio dei commissari, i progetti suggeriti dallo staff di consulenza dell’Ilva e le elaborazioni di Boston consulting group in qualità di consulente industriale di Citigroup, advisor di Cassa depositi e prestiti) sarebbero concordi, pur se con accezioni diverse, nella difficile praticabilità del rifacimento dell’Afo5. Alcuni suggeriscono esplicitamente una riduzione della capacità produttiva: senza l’altoforno principale, l’acciaieria potrebbe contare solo sugli altri tre impianti, in pratica dimezzando l’output.

Accanto a questa operazione, però, si propone anche l’introduzione di tecnologie di produzione alternative e complementari, anche per mitigare l’impatto occupazionale che deriverebbe dallo spegnimento dell’Afo5.

L’ipotesi condivisa è immaginare un mix tra ciclo integrale ed elettrosiderurgia, costruendo due forni elettrici da alimentare con il rottame. Contemporaneamente, i consulenti sollecitano anche una riflessione sulla possibilità di realizzare un impianto di preriduzione (Ilva ha già sperimentato con Bondi l’utilizzo del dri, e anche recentemente l’utilizzo previsto dai commissari è stato di circa 800mila tonnellate) a Taranto. In questa logica, la «suggestione» legata al coinvolgimento di Paolo Scaroni (vedi pezzo sopra) potrebbe assumere un valore strategico non indifferente: il preridotto - semilavorato ottenuto trattando pellets di minerale ferroso con monossido di carbonio e idrogeno, una specie di «spugna di ferro» che viene caricato nell’altoforno al posto del coke o nel forno elettrico invece del rottame - necessita di un approvvigionamento di gas a basso costo, e la conoscenza del mercato dell’ex amministratore delegato dell’Eni potrebbe giocare un ruolo importante. Va sottolineato, inoltre, che la principale tecnologia di produzione di preridotto oggi esistente è italiana, ad opera della jv Danieli-Tenova. Il sodalizio da quasi 10 anni realizza impianti di preriduzione nel mondo, è di 14 milioni la capacità installata con tecnologia italiana. Recentemente è stato avviato un impianto in Egitto con risultati considerevoli.
M. Me.

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