Economia

Caso Ilva, il gruppo Amenduni fa causa al Governo

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Caso Ilva, il gruppo Amenduni fa causa al Governo

Il Governo ha messo all’asta l’Ilva. Qualcuno – forse – la comprerà. Gli Amenduni – dell’Ilva - non hanno più nulla. Sono stati espropriati. E, adesso, fanno ricorso contro lo Stato per ottenere – almeno – il giusto indennizzo. Gli acciaieri veneti hanno scelto la strada del giudizio civile.

Lunedì gli azionisti di minoranza della “fu Ilva” hanno depositato alla sezione specializzata in materie di imprese del Tribunale di Milano l’atto di citazione, nei confronti della Presidenza del Consiglio, della Valbruna Nederland B.V., la società di diritto olandese che ha (o, meglio, aveva) in carico il 10,05% del gruppo oggi finito all’asta.

La vicenda, per loro, ha contorni assurdi. Per una volta, appare corretto l’utilizzo dell’abusato aggettivo “kafkiano”. Dopo avere investito in più riprese nell’Ilva, in “tempo di pace” gli Amenduni si sono trovati a indossare i panni dei soci di minoranza privi di potere: senza influenza gestionale, dato che erano estromessi totalmente dalla conduzione padronale dei Riva allora guidati dal fondatore Emilio, e senza alcun beneficio economico, data la scelta della famiglia lombarda di non distribuire dividendi ai soci. Poi, “in tempo di guerra”, ossia quando la magistratura di Taranto ha avviato “Ambiente Svenduto”, gli Amenduni non sono finiti mai in nessuna inchiesta.

Poco alla volta, però, questa posizione ha assunto una crescente cifra assurda: in particolare quando poco alla volta il Governo, che ha preso da subito le redini dell’azienda attraverso l’istituto del commissariamento, ha posto le basi normative – magari sdrucciolevoli sotto il profilo giuridico, ma concretissime nella realtà – per una rapida estromissione da parte del Commissario degli azionisti da ogni scelta condivisa e dai minimi flussi di informazione sull’andamento della società (blackout dopo una riunione con l’allora commissario Enrico Bondi nel settembre del 2012) e per una graduale espropriazione dei diritti di proprietà, fino alla trasformazione dell’Ilva in una azienda a controllo pubblico e alla sua messa in vendita, due eventi che si sono incrociati peraltro con il fallimento – tecnicamente “ingresso in amministrazione straordinaria” – di una impresa che – astraendosi dall’indubbia criticità ambientale - era stata fra le più redditizie e industrialmente efficienti del panorama siderurgico europeo.

Nelle pieghe dell’atto di citazione predisposto da Giuseppe Portale, ordinario di diritto commerciale alla Cattolica di Milano, Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo a Roma-Tor Vergata e Giacomo D’Attorre, ordinario di diritto commerciale all’Universitas Mercatorum di Roma, si percepisce chiaramente il bisogno di trovare – in un contesto segnato in molti suoi aspetti da una irrazionalità pervasiva – una posizione non emotiva ma nitida, non agitatamente vittimistica ma neppure da agnello disponibile al massacro.

Non è soltanto una questione linguistica, percepibile nei passaggi in cui si sembra quasi prendere le distanze – pur non accettandolo né di diritto né di fatto – dall’esproprio avvenuto. È anche un tema rinvenibile nella parte economica: nella perizia realizzata dal rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone e dal prorettore Giuliano Noci la cifra richiesta sfiora i 300 milioni di euro. Una somma ottenuta adoperando criteri dichiarati come prudenziali, che per esempio hanno escluso il tema del lucro cessante (il mancato guadagno ottenuto da un’azienda florida e non finita in fallimento) e hanno privilegiato il confronto con l’andamento degli altri competitor internazionali, che avranno sì sofferto – dall’estate del 2012, quando l’indagine giudiziaria portò alla prima ondata di arresti e di sequestri degli impianti – la recessione e l’eccesso di capacità produttiva della siderurgia mondiale, ma sono ancora vivi e vegeti e soprattutto sono nella disponibilità dei loro proprietari.

Nel complesso, i due periti di parte hanno quantificato il valore di Ilva Spa, al 31 dicembre 2012, in 2,526 miliardi di euro. Dunque, come detto, la quota riferibile alla Valbruna sfiora i 300 milioni. Si tratta principalmente, si legge nell’atto di citazione, del «valore della quota di partecipazione della Valbruna Nederland B.V. nella società Ilva Spa al momento dell’esproprio di fatto determinato dal commissariamento ex d.l. 61/2013 (5 giugno 2013). Tale importo deve essere indennizzato dallo Stato-espropriante alla Valbruna Nederland B.V.-espropriata». Gli Amenduni stanno, quindi, percorrendo un doppio binario per uscire dalla condizione di minorità in cui si ritrovano schiacciati dall’estate del 2012: il giudizio civile fa infatti il paio con il ricorso presentato il 19 maggio 2015 al Presidente della Repubblica italiana, con cui – rivolgendosi a questi in qualità di vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura – è stato attivato il profilo amministrativo. Inoltre, in questi giorni è stato depositato, presso il Tribunale Amministrativo del Lazio a Roma, un ulteriore ricorso per l’annullamento «dell’invito a manifestare interesse in relazione all’operazione di trasferimento dei complessi aziendali facenti capo ad Ilva Spa in amministrazione straordinaria e ad altre società del medesimo gruppo». Dunque, dopo quattro anni di attesa, la famiglia Amenduni completa così la sua strategia difensiva.