«Le politiche attive per il lavoro sono un pilastro fondamentale del Jobs Act. La sfida più grande sarà operare una vera e propria rivoluzione culturale qui in Italia, creando un sistema virtuoso di rete tra pubblico e privato a vantaggio di chi deve ricollocarsi». Ha le idee chiarissime Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, consigliere giuridico del presidente del Consiglio Matteo Renzi e da una manciata di mesi presidente dell’Anpal, l’agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro introdotta dalla nuova legislazione di settore. Parte da una fotografia dell’esistente, nella consapevolezza che «quello che si è fatto fino a oggi non ha funzionato fino in fondo» perché «mancavano i presupposti a far sì che accadesse». Ma «cambiare strada adesso è possibile».
Professor Del Conte, le politiche attive non nascono con il Jobs Act. Come giudica le esperienze che hanno preceduto la riforma
del mercato del lavoro?
Partiamo da un dato storico: per cultura, qui in Italia, si è sempre registrata una certa resistenza alle politiche attive.
Tuttavia il nuovo contesto macro-economico e il cambiamento del quadro giuridico di riferimento, in particolare le indicazioni
che arrivavano dall’Unione europea, hanno messo il tema sul tavolo anche qui da noi. Si sono mosse le regioni. In ordine sparso
tuttavia.
Con quali esiti?
I risultati sono stati molto diversi a seconda dei casi. Qualcuno ha fatto bene, altri meno bene, qualche altro ancora ha
fatto decisamente male ma a essere problematico era innanzitutto il contesto di riferimento. Mancava un’armonizzazione nazionale
delle politiche attive, tutto ciò impediva che si accantonassero le esperienze fallimentari e si valorizzassero e replicassero
quelle più efficaci. Le politiche attive funzionano se esiste una regia unica.
Cosa cambia adesso con il debutto dell’Anpal?
Finalmente la cabina di regia c’è. Si tratterà di mettere in rete le esperienze pubbliche e private a vantaggio di chi cerca
impiego. Pensiamo a uno strumento informativo unico a livello nazionale, attraverso cui chi ha perso lavoro possa confrontarsi,
su tutto il territorio del Paese, con la domanda di profili professionali analoghi al suo.
Il concetto ricorda un po’ la vecchia “borsa” del lavoro di cui si parlava anni fa.
E infatti non è un concetto nuovissimo. Se tuttavia le esperienze passate non si sono rivelate efficaci, è stato innanzitutto
perché ciascuno agiva in proprio. Le politiche attive hanno debuttato qui da noi negli anni del federalismo spinto. Ciò ha
fatto da ostacolo alla creazione di una vera e propria rete che mettesse in collegamento la domanda e l’offerta di professionalità
in tutto il Paese. Cosa che vogliamo fare invece adesso.
Il pubblico, attraverso i centri per l’impiego, in questi anni si è trovato a fare concorrenza al privato, ossia alle agenzie
per il lavoro. Il mercato italiano può reggere questa concorrenza?
La realtà italiana non mi sembra affine a quella tedesca, dove il pubblico risponde alle esigenze di chi cerca lavoro e di
chi cerca lavoratori su tutto il territorio nazionale. Un modello del genere qui risulterebbe molto dispendioso. Penso piuttosto
a una via italiana alle politiche attive che armonizzi il ruolo del pubblico e quello del privato. Gli assegni per l’impiego
rappresenteranno una chance per lo sviluppo stesso del mercato.
Come funzioneranno?
Un cittadino avrà una dote da investire sulla ricollocazione. Potrà scegliere se rivolgersi a un centro per l’impiego pubblico
o a un’agenzia per il lavoro privata. E, qualora non dovesse essere soddisfatto, potrà cambiare idea. L’idea è anche quella
di scardinare lo storico sistema di collocamento italiano, tutto incentrato sulle conoscenze personali. Un sistema iniquo,
perché non offre a tutti i cittadini le stesse possibilità. E pure inefficiente, perché spesso penalizza chi invece meriterebbe
di essere valorizzato.
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