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Dossier Per Paesi e imprese la sfida è sui talenti

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    Dossier | N. 3 articoliRapporto Formazione & management

    Per Paesi e imprese la sfida è sui talenti

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    Quello che ci attende nei prossimi anni è un mercato del lavoro globale segnato da forti tensioni. Gli osservatori internazionali delineano uno scenario contraddistinto da una parte da un incremento della disoccupazione e un peggioramento generale delle condizioni lavorative soprattutto nelle economie emergenti, dall'altra da uno shortage di profili adeguati a svolgere ruoli sempre più sofisticati nelle economie avanzate, che McKinsey quantifica in una carenza globale di circa 40 milioni di unità nel 2030.

    Ecco perché si parla di una guerra dei talenti e delle competenze al centro della sfida competitiva del futuro, sia tra Paesi sia tra singole imprese. Non per niente, gli Stati più avveduti stanno investendo senza indugio sull'intera pipeline dell'education, così da assicurarsi tassi di innovazione invidiabili. Gli scenari con cui ci si deve confrontare, però, sono molto diversi rispetto al passato: in un mondo interconnesso la questione ambientale, la progressiva riduzione della disponibilità di risorse naturali, i fenomeni migratori, richiedono una visione sistemica e non riduzionistica della realtà.

    In base a quanto si legge nel World employment and social outlook – Trend 2016 dell'Ilo, per sfatare il pericolo di un'implosione innescata dal rallentamento dell'economia mondiale (che è cresciuta del 3,1% nel 2015, più di mezzo punto percentuale in meno rispetto alle attese) i Paesi avanzati dovrebbero perseguire lo sviluppo di un modello economico inclusivo, responsabile e sostenibile. «Oggi l'innovazione si genera al confine delle discipline e delle diversità. Soltanto con la contaminazione si può fare non solo di più, ma meglio, con meno, secondo i principi della Frugal Innovation – afferma Leonardo Previ, presidente di Trivioquadrivio e docente di Gestione delle risorse umane all'Università Cattolica -. Per riuscirci è necessario un radicale ripensamento delle strategie aziendali mirato a far emergere quell'ingegnosità collettiva, che fiorisce negli ambienti di lavoro quando le persone vengono considerate per quello che sono: giacimenti ambulanti di risorse inesauribili. E questo è compito dei manager».

    Ma siamo pronti per queste nuove sfide? La lunga crisi strutturale ha imposto un cambio di prospettiva che l'Italia fa fatica a metabolizzare. Il Paese fa i conti con un tasso di disoccupazione all'11,4% a dicembre, un'emergenza Neet (Not in education, employment or training) che secondo il rapporto Noi Italia Istat 2015 rappresentano ormai il 26% degli under 30 italiani, la fuga dei giovani all'estero (oltre 100mila nel 2014 secondo l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero) e un mismatch tra offerta e domanda di lavoro, che secondo la prima Survey of adult skills dell'Ocse, è il più alto tra i 22 Paesi esaminati. In sintesi, navighiamo in un mercato del lavoro inefficiente, frutto di divisioni anziché di allineamento tra politiche formative e occupazionali.

    Cosa ci è sfuggito? Secondo Vladimir Nanut, presidente Asfor (Associazione italiana per la formazione manageriale), oltre che Dean del Mib School of Management di Trieste, «questa situazione non è altro che il risultato di un Paese malato di autoreferenzialità e di carenza di meritocrazia, che riguarda anche il settore della formazione manageriale. All'estero si respira la voglia di emulare i migliori, da noi spesso i migliori danno fastidio a chi preferisce difendere l'esistente». È quanto denuncia anche il Forum della Meritocrazia, supportato dai dati 2016 del Meritometro, che ci vedono in fondo al ranking dei 12 Paesi europei considerati.

    «Non ci siamo ancora resi conto della competizione che c'è sul job market globale - dice Cristina Spagna, managing director di Kilpatrick international executive search -. Siamo una società chiusa che preferisce vivere dentro i suoi confini anziché confrontarsi in un mercato aperto, dove a contare sono la validità del curriculum e il posizionamento di università e business school da cui si proviene. I titoli, dal master all'Mba fino al Phd, fanno la differenza solo se conseguiti nelle scuole ai primi posti dei ranking internazionali. E poi, c'è un problema anche di attrattività delle società italiane, che spesso hanno livelli di retribuzione non paragonabili a quelli offerti da aziende straniere».

    Il terreno su cui il Paese deve svoltare, allora, è quello della cultura manageriale. Sia nelle imprese (pubbliche e private), dove spesso si fa ancora fatica a percepire il valore aggiunto di profili molto qualificati, sia nel settore dell'alta formazione, a volte ancora schiacciata da un eccesso di competenze specialistiche che non risponde a ciò che oggi richiede il mercato. «Sul fronte dei master di primo livello indirizzati alle giovani leve, le scuole di management devono allenare soprattutto alla flessibilità, al pensiero critico, alla proattività – spiega Nanut -. Per gli executive, invece, si deve lavorare sull'approccio mentale per renderli capaci di affrontare le grandi sfide della digital transformation, del change management, della multiculturalità, della leadership».

    Non solo competenze trasversali quindi, ma vere e proprie life skills, a partire dalla consapevolezza di sé, dall'intelligenza sociale ed emotiva che andrebbero coltivate lungo tutto l'arco scolastico. «È indubbio che i manager devono imparare ad assumersi più responsabilità, sviluppare un senso di anticipo e di maggiore comprensione della realtà e delle relazioni – avverte Previ -. Tutte abilità difficili da apprendere solo nelle business school. Bisogna iniziare a svilupparle prima, sfruttando la nuova legge sull'alternanza scuola-lavoro, e dopo, nelle organizzazioni, utilizzando al meglio le nuove tecnologie che permettono metodi di apprendimento orizzontale e facilitano la raccolta di big data, dalla cui interpretazione scaturisce conoscenza. È questo il terreno su cui la formazione manageriale può continuare a giocare un ruolo importante».

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