Fuga di talenti, Neet, inattività. Cambiano i sintomi, ma la patologia resta identica: l'Italia sta in larga misura sprecando il capitale umano dei suoi millennials, la generazione di under 30 che fatica a inserirsi nel mercato del lavoro.
Per farsene un'idea, basta sfogliare gli ultimi dati Istat, analizzati in profondità sul Sole 24 Ore di oggi. Qui basti ricordare che a gennaio il tasso di disoccupazione degli under 35 è oscillato tra il 39,3% della fascia 15-24 anni e il 17,2% di quella riferita ai 25-34 anni. Ancora più grave, in proporzione, la “bolla” dell'inattività: dal 74,6% degli under 24 al 27,2% della fascia con più potenziale di studi e competenze (25-34 anni).
Se si guarda oltre ai macro-indicatori, però, emergono segnali anche più profondi. Gli under 35 spesso hanno deviato i loro progetti sulle rotte dei mercati esteri, con l'obiettivo di decollare alla prima offerta adatta alle proprie competenze. I Neet, i giovani «né in educazione né in istruzione», hanno raggiunto la soglia da allarme del 27,3% nella fascia dai 15 ai 34 anni. Un bacino di oltre 2 milioni di potenziali lavoratori che ospita, al suo interno, casi differenziati della non occupazione: dai disoccupati a tutti gli effetti ai talenti confinati in una zona grigia che va dal precariato al lavoro nero.
Viste le premesse, non stupisce che un processo fisiologico come il brain drain (la mobilità dei talenti) si sia trasformato fin qui in una fuga a direzione unica. In altre parole, i giovani italiani partono a caccia di contratti e retribuzioni migliori ma imboccano solo di rado la via del ritorno. Perché? Il Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo evidenzia come oltre il 75% del campione reputi le prospettive di carriera offerte in patria «peggiori» di quelle che si potrebbero registrare su scala internazionale. Tra le motivazioni che hanno spinto gli attuali “expats” a lasciare la Penisola, il podio è dominato da fattori come meritocrazia (80%), possibilità di fare meglio il proprio lavoro (69%) e il tasto dolente di remunerazioni molto meno appetibili di quelle offerte anche dalle vicine Francia e Germania (60%).
Alessandro Rosina, ordinario di demografia all'Università Cattolica, interpreta i disagi degli under 30 come la conferma della «incapacità del sistema paese di rendere le nuove generazioni un sistema di cambiamento, tanto che se vogliono crescere devono andare all'estero». Il confronto con l'Europa, del resto, è spietato. I Neet, un giovane su quattro in Italia, in Germania superano a fatica l'11%: «Non solo siamo sempre più sprovvisti di giovani, ma non riusciamo a far loro esprimere tutto il potenziale quando li impieghiamo – dice Rosina -. Non riusciamo a considerarli un capitale umano ma, semmai, un costo sociale. Il saldo negativo tra chi va e chi torna è una ulteriore conferma». Secondo Rosina, l'urgenza è sconfinata nel paradosso: i giovani talenti italiani sarebbero disposti a trattenersi in Italia anche a condizioni e stipendi inferiori a quelli offerti all'estero, in “cambio” di prospettive meno opache sul proprio futuro professionale. Peccato che, per ora, l'ottimismo non sia proprio di casa: è sempre l'Istituto Toniolo a rivelare come il 71,6% dei giovani interpellati sia «per nulla o poco convinto» che la situazione progredirà nell'arco di tre anni.
Un cortocircuito disoccupazione-sfiducia simile, nella forma, a quello che intralcia il lavoro femminile. Come rilevato dall'Istat e discusso in occasione del lancio di «Human Cooperation nella vita dell'azienda», iniziativa dell'associazione di imprese Valore D e di Aggiornamenti sociali, l'occupazione femminile è al 47,5%: ben al di sotto sia del tasso maschile (66,1%), sia di quello della maggior parte dei paesi cosiddetti sviluppati, sia del target del 75% fissato dall'Europa per il 2020. E la categoria più fragile, neppure a dirlo, sono proprio le giovani. Come nota Anna Zattoni, direttore generale di Valore D, «se guardiamo alla fascia di età 25-34, l'occupazione femminile è scesa di mezzo punto contrariamente a quella maschile che è salita di tre punti nel 2014: un segnale allarmante che ci impone di intervenire, anche con alleanze tra imprese e terzo settore».
Sotto il fronte delle politiche attive, l'attenzione è sui primi bilanci – provvisori - di Garanzia giovani e del Jobs act. Il primo, un programma promosso dall'Unione europea per l'inclusione lavorativa degli under 30, ha incassato in Italia un totale di oltre 972mila iscrizioni. Crescono i casi presi in carico, a quota 618mila (+7,5% rispetto al 31 dicembre 2015). Resta un po' più magro, per ora, il bilancio delle proposte effettive: 284.782, secondo le varie formule di tirocinio e contratto veicolate. Quanto al Jobs act (analizzato nei suoi primi risultati in altri articoli del Sole 24 Ore di oggi), buona accoglienza ha trovato il tentativo di semplificazione sui contratti per i più giovani. Per il neopresidente Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive), Maurizio Del Conte, buoni segnali arrivano già dagli strumenti individuati, come la stessa Garanzia giovani: «Il fatto che oltre 900mila giovani si siano attivati per fare domanda è un evento inedito e potrebbe segnare un passaggio culturale – dice Del Conte -. Poi, certo, ci sono stati problemi di organizzazione e grandi differenze nelle modalità di declinare il programma». Tra gli strumenti per l'inclusione futura, Del Conte intravede sopratutto un «network tra pubblico e agenzie private» che potenzi la capillarità sul territorio. Senza dimenticare un altro passaggio generazionale: l'uso delle tecnologie. I millennials cercano lavoro sullo smartphone e sui social, prima che in agenzie e bacheche fisiche. «Il lavoro sulle tecnologie e sulle interfacce con l'utente è fondamentale – dice Del Conte -. Oggi una piattaforma così non si trova. Bisogna costruirla».
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