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Tripi: inascoltato il nostro allarme

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Industria

Tripi: inascoltato il nostro allarme

  • –Andrea Biondi

«Il nostro gruppo dà lavoro a 50mila persone nel mondo. È il quinto gruppo privato italiano per occupazione». Amarezza e rabbia. Le parole di Marco Tripi, amministratore delegato di Almaviva e presidente di Almaviva Contact, trasudano rimpianto: «Abbiamo lanciato l’allarme più volte. Lo avevamo detto che cosi non si sarebbe potuto andare avanti».

Fra 2003 e 2004 il banco rischiava di saltare sull’uso distorto dei lavoratori a progetto. Poi è arrivata la circolare Damiano «e noi abbiamo assunto 5mila lavoratori a tempo indeterminato». Quella stabilizzazione, di lavoratori e regole, portò benefici, tant’è che «a fine 2012 con i call center realizzavamo 230 milioni di fatturato. Ora ne abbiamo 160». Proprio allora, al culmine di quella parabola ascendente, Almaviva invitò a scongiurare un altro rischio: «Facemmo presente, inascoltati, che la delocalizzazione avrebbe avuto gli stessi effetti, anzi peggiori».

A questo punto ciò che sta accadendo è un risultato inevitabile fa capire l’ad di un gruppo di cui la famiglia Tripi ha il controllo al 65%, da circa 750 milioni di ricavi nel mondo, per la metà nell’It (in cui lavorano 4mila persone) con la gestione dei sistemi informativi di grandi aziende e per l’altra metà nelle attività di contact center (in cui gli occupati a livello mondiale sono 46mila). «Il nostro gruppo ha avuto perdite consolidate per 55 milioni negli ultimi 10 anni, tutti imputabili ai call center. Questo ha anche comportato un aumento di capitale per 50 milioni».

Un esborso mentre l’azienda ha continuato a investire, condizione per restare degnamente sul mercato: «Abbiamo investito 20 milioni negli ultimi 4 anni sulle tecnologie per il Crm». Cosa è successo dunque? «Siamo un’azienda in espansione, a vocazione internazionale, ma in Italia viviamo in un sistema di regole non rispettate».

Sull’opportunità di arrivare a questa procedura Tripi non transige, come sul rifiuto di finire sul banco degli imputati sul tema della responsabilità sociale. «Solo negli ultimi due anni abbiamo fatto 50 incontri con istituzioni locali o nazionali. Abbiamo ricevuto impegni ufficiali a intervenire su problemi che, si badi bene, non sono nostri, ma del sistema».

Come la delocalizzazione, per esempio, che «non solo ha diminuito i volumi, ma ha contagiato drammaticamente le tariffe. Abbiamo assistito a gare aggiudicate ben sotto i minimi contrattuali, come peraltro rilevato recentemente anche da associazione di categoria e organizzazioni sindacali». Conseguente il risultato: «Noi che non abbiamo delocalizzato, e lo abbiamo messo nero su bianco nello statuto, abbiamo costi più alti anche del 15%. Ma rispettiamo le leggi, facciamo innovazione». E intanto le commesse vanno altrove: «Abbiamo perso 7-8 clienti per questo».

La speranza di una soluzione meno traumatica è legata ai prossimi 75 giorni. «La nostra – dice Tripi – non è però una mossa tattica. Noi ce l’abbiamo messa tutta. Abbiamo fatto tavoli su tavoli. Nel frattempo abbiamo visto concorrenti che hanno vinto commesse grazie a costi che riteniamo difficilmente compatibili con i minimi contrattuali; abbiamo visto aziende concorrenti che utilizzano personale riassunto dopo qualche mese di stop con i contributi per la nuova occupazione. In tanti si sono distratti. In troppi».

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