Economia

Sfida reshoring per il made in Italy

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competitività

Sfida reshoring per il made in Italy

C’era un’epoca in cui la nuova frontiera della manifattura italiana (e non solo) sembrava essere inevitabilmente la delocalizzazione. Per continuare a competere, di fronte allo tsunami della globalizzazione che si stava avvicinando, occorreva ridurre soprattutto il costo del lavoro e quello dell’energia. Spostando lavorazioni in aree e Paesi dove i due fattori erano (e restano) decisamente più bassi rispetto all’Italia.

Tra gli anni ’90 e il 2000 a Biella si immaginò addirittura di ricreare un vero distretto tessile in Romania. La “clonazione” immaginata anche con il supporto delle istituzioni locali non andò in porto, ma le aziende – non solo biellesi e non solo del settore tessile, ovviamente – hanno trasferito lavorazioni oltreconfine in molti casi.

Ora diverse aziende stanno tornando. I problemi legati al gap sul costo del lavoro e dell’energia sono rimasti, ma per il manifatturiero sta diventanto prioritario puntare sull’alta qualità, sul saper fare, come elementi competitivi. Tra i casi più noti e recenti raccontati dal Sole 24 Ore, ci sono quelli di Natuzzi (divani, dalla Romania), Ciak Roncato (valigeria, dalla Cina), Fiamm (accumulatori ed energia, dalla Repubblica Ceca), Danfoss (oleodinamica, dalla Slovacchia), Argo Tractors (macchine agricole, da Francia e Regno Unito), And Camicie (abbigliamento, dalla Cina).

Al fenomeno del reshoring dedica un focus particolare l’ultimo rapporto Cer (Centro Europa ricerche) “Attrarre sviluppo”, realizzato con il sostegno di Unindustria. I dati aggiornati a giugno 2015 (i più recenti disponibili) parlano di 101 casi di rilocalizzazione produttiva in Italia. Si tratta di produzioni che erano state delocalizzate soprattutto in Cina (nel 34,6% dei casi) e in Europa dell’Est (26,7%). Tra i settori industriali, invece, spiccano tessile-abbigliamento moda (con circa il 43% dei casi di ritorno), apparecchiature elettriche ed elettroniche (poco meno del 21%) e meccanica (8,9%).

Non è un caso che tra i principali sostenitori del reshoring ci sia Sistema moda Italia (Smi): «Il reshoring porta un valore aggiunto per l’intera filiera – sottolinea Claudio Marenzi, presidente di Smi –, sia in termini di maggior controllo che di un miglior time to market per le imprese».

Per Gaetano Fausto Esposito, segretario generale di Assocamerestero, «secondo il Rapporto Cer – presentato nel corso di un convegno organizzato con Assocamerestero e Unioncamere – oltre il 70% dei casi si concentra nell’industria del fashion e in quella dell’elettronica e macchine utensili. Su queste filiere l’effetto positivo del “made in” – con tutto ciò che significa in termini di know-how che si forma sul territorio – assume un ruolo predominante rispetto a quello derivante dal risparmio di costi di produzione e segnala un innalzamento del target di riferimento delle imprese verso fasce di consumatori a elevato potere di acquisto». Non tutto è semplice e lineare, però, come spiega Marenzi: «Il ritorno della produzione non è un processo facile da realizzare e lo abbiamo notato anche grazie ai progetti pilota di reshoring avviati in Veneto e in Puglia in collaborazione con PwC e Mise. Chi in passato ha delocalizzato all’estero, trova difficoltà a tornare in Italia, soprattutto in tempi di crisi e margini compressi. Inoltre, con gli attuali costi del lavoro, i processi di ritorno della produzione non sono certamente facilitati. Tuttavia, proseguirà il nostro impegno per sostenere le imprese in questo processo e per farne conoscere vantaggi e benefici». In proposito, il Rapporto Cer specifica come accanto a queste azioni e agli interventi di riqualificazione e formazione del personale, rivesta un ruolo di primo piano anche il contributo degli operatori della distribuzione commerciale. Il gruppo Ovs, ad esempio (titolare delle insegne Ovs e Upim) «sarebbe interessato a trasferire in Puglia e Veneto commesse attualmente allocate a fornitori esteri». Una sinergia sulla scia di quanto accade da tempo negli Stati Uniti con il progetto Buy America, implementato dal retailer Walmart. Nel caso italiano, secondo gli analisti di Cer, l’azione di Ovs «assume un significato particolare dato il target medio a cui la catena si rivolge, mentre finora le notizie di rientri delle produzioni erano state principalmente focalizzate sulla fascia medio-alta e alta».