Economia

Italia in prima linea nel «reshoring»

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Competitività

Italia in prima linea nel «reshoring»

Al secondo posto alle spalle degli Stati Uniti. Così si colloca l’Italia in termini di decisioni di reshoring: 121 contro le 326 americane. Seguono il Regno Unito (68) e la Germania (63) e complessivamente si arriva a quasi 730 casi in tutto in mondo. Numeri oggettivamente piccoli rispetto ai rispettivi universi manifatturieri, ma che dimostrano, anzi confermano, come sia possibile tornare a produrre nelle economie avanzate dopo aver delocalizzato in quelle in via di sviluppo.

Che nel Dna del fare impresa italiano ci sia la manifattura è poi confermato dall’analisi regionale delle sedi delle imprese: quasi 100 sono nel Nord Italia, una ventina nel Centro, mentre solo quattro rappresentano il Sud. È quanto rivela l’edizione 2016 dell’analisi «Il reshoring manifatturiero» realizzata dal Gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Reshoring che nel corso degli ultimi anni, a partire dal 2009, monitora il trend del ritorno delle imprese.

IL NORD-EST ATTIRA
Dove si trovano

«Dall’inizio della crisi economica globale il fenomeno sta crescendo nei principali paesi industrializzati, anche grazie a politiche di supporto come quelle varate dall’amministrazione Obama negli Usa o in Gran Bretagna - spiega Luciano Fratocchi, docente dell’Università di L’Aquila e coordinatore dell’Uni-Club MoRe Reshoring -. In Italia l’andamento è stabile, ma non tutte le aziende che hanno fatto rientrare delle produzioni sono disposte a dichiararlo, per cui il fenomeno è sottostimato».

Da dove rientrano le aziende italiane? Nella metà dei casi ci si lascia alle spalle il Far East e in circa in un caso su quattro si ritorna anche dall’Est Europa o dall’Europa occidentale. In questa casistica rientra la bolognese Ima, leader mondiale nel packaging, che dopo avere acquisito nel 2014 cinque società tedesche ha in progetto di trasferire in Emilia una quota consistente delle commesse alle aziende della propria filiera produttiva. «Si tratta di forniture per 60-70 milioni l’anno che possono portare a un aumento occupazionale tra i 150 e i 200 addetti», sottolinea Alberto Vacchi, presidente e ad di Ima.

I rientri sono anche agevolati dal miglioramento della competitività del manifatturiero “made in Italy” come ricorda il «Global manufacturing competitiveness index» di Deloitte. Nell’edizione 2016 di questa classifica mondiale l’Italia si colloca al 28° posto, con un guadagno di quattro posizioni rispetto all’ultima rilevazione del 2013. «Un progresso a cui contribuiscono le risorse altamente qualificate, il controllo dei costi e l’aumento della produttività» spiega Valeria Brambilla, partner di Deloitte e promotrice del report.

Tra i principali motivi che fanno scattare la decisione del rimpatrio c’è l’effetto “made in”, il miglior servizio al cliente, la qualità non sempre all’altezza delle produzioni delocalizzate, un processo di riorganizzazione interna magari innescato dalla crisi. Il capitolo costi (di logistica e totali) pesa nel 10% dei casi, mentre il differenziale del costo del lavoro vale per il 6% delle scelte.

Invece quello che manca al sistema-Italia è una politica organica che agevoli sia il rientro delle produzioni che gli investimenti esteri. «Oltre a favorire il rimpatrio delle produzioni già delocalizzate -aggiunge Fratocchi -, le politiche industriali nazionali dovrebbero essere indirizzate anche al near-shoring, il riavvicinamento in Europa di produzioni da parte di aziende europee».

Ci sono, poi, gli stanziamenti di banche e regioni per riattrarre sul territorio le imprese. È il caso, per esempio, dell’accordo tra Regione Marche, la Confindustria territoriale e Mps con una dote di 200 milioni per chi fa reshoring.

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