Economia

Medie imprese più forti della crisi

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la questione industriale

Medie imprese più forti della crisi

Sono l’avanguardia dell’economia reale, ma anche tra di loro c’è chi procede ad alta velocità e chi ha pagato il prezzo della crisi. L’edizione 2016 dell’Indagine sulle medie imprese industriali italiane, realizzata da Mediobanca e Unioncamere, conferma l’esistenza di una sorte di selezione in atto: cresce chi si è strutturato durante la crisi e, in misura maggiore, chi ha un buon mix tra esportazione e presenza domestica.

Le 3.283 medie imprese italiane, con una forza lavoro compresa tra 50 e 499 unità e un fatturato che va da 16 a 355 milioni, sono concentrate per il 64% in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, e da loro giunge circa il 16% del valore aggiunto e delle esportazioni dell’industria manifatturiera. Nell’arco del decennio 2005-2014, che ha nel mezzo la doppia grande crisi, questa platea di imprese ha messo a segno una crescita del fatturato pari al 35%, più del doppio rispetto alla manifattura (+14%).

COME CAMBIANO LE PMI ITALIANE
Evoluzione del numeri delle medie aziende italiane e di alcuni parametri dimensionali

Se si stringe la visuale al periodo 2007-2014 il valore aggiunto è cresciuto del 13,4% mentre per tutta la manifattura scendeva del 13%; gli occupati sono aumentati del 4,3% a fronte di una perdita di 660mila posti totali. Determinante la presenza forte sui mercati esteri, dove nel decennio la crescita è stata del 63% contro il 42% della manifattura (+20% invece la crescita interna). Nello stesso periodo la base occupazionale è aumentata dell’11% mentre quella dell’intera manifattura calava del 6,5%, e anche la redditività ha un altro passo: Roe medio del 5,5% tra il 2010 e il 2014, quasi il 17% al di sopra del totale. Colpisce poi, in questa lettura generale del fenomeno, come per una volta il Mezzogiorno non debba rincorrere, allineandosi grosso modo alle performance nazionali: +34% il valore aggiunto, +85% le epsortazioni, +10% l’occupazione.

Eppure, anche per questo gruppo di testa della nostra industria, il clima congiunturale internazionale consiglia cautela sull’immediato futuro. Così prevale l’attendismo e a prevedere un aumento del fatturato nel 2016 è solo il 35,6% delle società, mentre lo scorso anno a crescere era stato il 46,1 per cento.

Vanno più veloci delle imprese che restano troppo piccole, come ha sottolineato Banca d’Italia nella recente relazione annuale. Ma ci sono distinzioni anche in questa categoria. Le medie imprese che sono entrate nella crisi già in una situazione di difficoltà hanno visto più che raddoppiare la loro rischiosità. La classe di merito migliore è cresciuta del 9%, grazie ai top performer, ma è anche vero che nella classe peggiore, aumentata addiritura del 90%, sono scivolate tante medie imprese che prima erano in mezzo al guado. È ancora una volta l’export, spesso, a marcare la distanza. Nel complesso la quota di medie aziende esportatrici supera il 92%, ma è l’intensità a fare la differenza. Le imprese esportatrici «export leader» sono il 30%, quelle «ad alto ptenziale» il 25%, quelle «a basso potenziale» il 33%. Secondo l’indagine, presentata ieri nella sede Unioncamere con un’introduzione del presidente Ivan Lo Bello, basterebbe che tutte le esportatrici «ad elevato potenziale» passassero nel gruppo export leader per avere 4.200 addetti in più e un incremento di valore aggiunto per 1,5 miliardi.

Anche il cruciale fattore produttività si declina in tutt’altro modo quando si parla di medie imprese. Dal 1996 lavoro e produttività sono cresciuti di pari passo (+55%), con un visibile intervento di efficientamento sulle risorse umane. In particolare, se prendiamo in considerazione l’inizio della crisi internazionale, la dimensione media è aumentata di 5 dipendenti, con una variazione di impiegati e dirigenti nell’ordine del 50% e un passaggio delle professioni intellettuali, scientifiche e tecniche dal 18 al 25% delle assunzioni.

Non siamo tuttavia in un mondo perfetto e le debolezze non mancano. L’eccessiva dipendenza dal canale bancario, ad esempio, con un’incidenza sul debito finanziario salita dall’85 al 90% e una ricorso ai bond sceso dal 12,2 del 2005 all’8,4%. E, poi, la nota timidezza nell’utilizzo del digitale. Il 75% è attivo sul web, ma nell’86% dei casi il fatturato online non supera il 10%.

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