Economia

Dossier Una metamorfosi dentro il sistema

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    Dossier | N. 3 articoliRapporto Emilia-Romagna

    Una metamorfosi dentro il sistema

    Dalla produzione manifatturiera all’intelligenza manifatturiera. Da mondi separati del sapere e del fare che cooperano a fasi alterne a un unico sistema all’interno del quale il travaso costante di competenze e strategie sgretola i confini tra scuole, atenei, imprese e laboratori di ricerca pubblici e privati per rispondere alla sfida della digital disruption e dell’Industria 4.0. E salvare così la competitività delle tradizionali filiere – che restano la punta di diamante dell’economia e dell’export regionale, dal food alla meccanica, dalla ceramica al biomedicale - attraverso la contaminazione con big data e telematica, sistematizzati già oggi in un hub di calibro europeo, e l’attrattività verso multinazionali per accelerare la globalizzazione di piccole e medie imprese.

    L’Emilia-Romagna è oggi nel pieno di una profonda trasformazione, che i numeri non riescono a fotografare, spinta da una finalità tanto semplice quanto pervasiva: salvaguardare il lavoro e le competenze umane. È la pietra angolare che la Giunta regionale guidata da Stefano Bonaccini ha posto un anno fa con il “Patto per il lavoro” – facendo sedere allo stesso tavolo chi studia, chi sperimenta, chi produce, chi finanzia e chi governa – e su cui la Regione sta costruendo tutta l’infrastruttura, da qui al 2020, di bandi e misure per lo sviluppo. Con 15 miliardi di euro di finanziamenti, per ambiti che spaziano dall’innovazione all’internazionalizzazione, mirando però sempre all’obiettivo più alto di tutelare e valorizzare lavoro e competenze distintive, che significa anche dimezzare la disoccupazione e riportarla in cinque anni al 4,5% pre-crisi. Anzi, “pre-rivoluzione”, è il termine usato in Emilia-Romagna, nella consapevolezza che non si tornerà più allo scenario di quasi un decennio fa.

    Il Pil emiliano-romagnolo resta 6 punti percentuali sotto il dato del 2007, la produzione industriale ha perso il 20%, la locomotiva dell’export si è improvvisamente fermata, il freno del credito non si è ancora allentato. E il recupero di posti di lavoro, che ha portato al 7,7% il tasso di disoccupazione, non basta agli emiliano-romagnoli, abituati a confrontarsi con gli standard mitteleuropei. «Lo stesso dato - dice il direttore del centro studi di Unioncamere Emilia-Romagna, Guido Caselli - oggi si presta a letture diametralmente opposte. L’occupazione, ad esempio, è salita di 35mila unità se si confronta il dato del primo trimestre 2016 con lo stesso periodo dell’anno precedente, ma è scesa di 9mila unità rispetto all’inizio della crisi. Andiamo bene o andiamo male?».

    «Andiamo (senza aggiungere “bene” o “male”, ndr), ma dobbiamo accelerare il passo e fare un salto di qualità», è la risposta del presidente di Confindustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini, di fronte a un orizzonte geopolitico dominato da totale incertezza che impone di aggrapparsi a ciò che si ha in casa per rinfocolare la fiducia, che è palpabile tra le imprese. «Seppur con una polarizzazione sempre più netta tra chi cresce e chi arretra anche all’interno di uno stesso settore, gli investimenti sono in recupero. E l’aumento dell’occupazione – aggiunge il presidente – significa aumento dei consumi interni e quindi di vendite. Il Patto per il lavoro sta funzionando, ora si tratta di fare sistema per valorizzare l’organizzazione del tessuto produttivo manifatturiero che ci contraddistingue e che anche i competitor tedeschi ci invidiano».

    Quel modello a filiera nel middle tech, con in testa una media-grande impresa («straniera o locale poco importa, il differenziale competitivo è nello spessore del territorio», sottolinea Marchesini) e dietro Pmi specializzate che garantiscono flessibilità, elasticità, reattività. Filiere che anche il sistema creditizio inizia a riconoscere come un unicum da finanziare secondo parametri che prescindono da indici e dimensioni del singolo operatore. E che hanno permesso all’Emilia-Romagna di entrare nella top ten europea delle regioni più attrattive per gli investimenti diretti esteri (Ide), che lo scorso anno hanno toccato il loro picco storico, secondo la banca dati Reprint di Ice-R&P-Politecnico di Milano: sono oltre 900 le imprese con capitali stranieri e rappresentano 70mila posti di lavoro e più di 27 miliardi di fatturato.

    Filiere che vengono alimentate dalla linfa di un “albero regionale della formazione” che ha radici e rami tentacolari per mettere a sistema discipline e soggetti (scuole, atenei, tecnopoli, incubatori, centri ricerche, corporate academy, fablab, fondazioni) diversissimi, in una terra dove scienziati, rettori, manager, economisti si siedono assieme – è successo una decina di giorni fa all’Opificio Golinelli di Bologna – per capire come tradurre in azioni formative concrete le traiettorie disegnate dall’accelerazione digitale. «Traiettorie in cui non conta più il possesso ma l’accesso, non la proprietà delle cose ma la possibilità di utilizzarle. Un cambiamento di portata tale – conclude Caselli – da svuotare di significato le discussioni sugli scostamenti dello zero virgola. Dobbiamo ripartire da ciò che siamo e abbiamo, ciò che non può essere scaricato da Internet, incorporato in un macchinario e localizzato ovunque. Si è competitivi solo all’interno di un territorio competitivo, che si declina in formazione, innovazione e welfare, unico antidoto alla delocalizzazione delle attività a maggior valore aggiunto e delle persone più qualificate».

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